Estratto dell’articolo di Stefano Lorenzetto per il “Corriere della sera”
Sulle orme di Cincinnato che si ritirò in campagna, l’avvocato Dario Gambarin, 66 anni, nato a Castagnaro (Verona) ma residente a Bologna, ha lasciato i codici per l’aratro. Cavalcate dal trattore Fiat 180-90 con lui alla guida, 20 biolche di terra si trasformano in un’opera d’arte di 60.000 metri quadrati visibile solo dal cielo.
Per parafrasare il Duce, l’aratro traccia il solco ma è la land art che lo difende, «e, modestia a parte, il massimo esponente mondiale di questa forma espressiva lo ha davanti a sé», si presenta. «Il mega ritratto agreste di Barack Obama finì sul New York Times e la Casa Bianca mi ringraziò».
Ha «arato» anche Putin.
opera di dario gambarin - putin
«Non il Putin di oggi. Per fargli gli occhi azzurri, usai due nylon bianchi rotondi, 12 metri di diametro, che riflettevano il cielo. Si precipitò da Roma la corrispondente della tv di Stato russa: “Ma io come fare per immagini?”. Cara, è colpa mia se non sei arrivata in elicottero? Entra nei solchi del terreno e filma. Inorridì: “Oh, niet, niet! Io non potere calpestare mio presidente”».
Chi altro ha immortalato?
«Papa Francesco. Per la morte di Steve Jobs, fondatore della Apple, tracciai la mela morsicata con il suo slogan “Stay hungry, stay foolish”, restate affamati, restate folli. Per i Mondiali di calcio in Sudafrica il volto di Nelson Mandela. Ho celebrato i 120 anni dalla nascita di George Orwell e i 50 dalla morte di Pablo Picasso. Anche Topolino».
Perché Topolino?
«Perché è Topolino».
È il Raffaello del vomere.
«Sarei avvocato civilista e psicoterapeuta, però ho abbandonato gli ordini professionali. Ho due lauree: giurisprudenza, con tesi in diritto canonico su Bonizone di Sutri, creato vescovo da papa Gregorio VII, e lettere e filosofia al Dams, con tesi sulla psicopatologia dell’arte».
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Faceva l’attore, mi risulta.
«Qualche particina per Pupi Avati. Ero il musicista Francesco Piantanida in Noi tre. E ho recitato in altri due film, Il papà di Giovanna e Una sconfinata giovinezza».
Quante opere di land art ha realizzato finora?
«Credo 110, dal 2005».
Ha rovinato molti campi.
«Sta scherzando? Mi offende! Intervengo solo su fondi brulli, prima della semina».
Di chi è la terra che usa?
«Di mia madre, mia e delle mie due sorelle, 27 ettari coltivati a grano, soia, mais, orzo. I kiwi li ho estirpati: non rendevano più nulla».
Come ha cominciato?
«Era un sabato pomeriggio d’estate. Fregai il trattore a mio padre, che si era concesso due giorni di vacanza ai Lidi ferraresi. Incisi con l’aratro un enorme volto femminile. La domenica sera, rincasando, papà notò la terra smossa. “Chi è entrato nel campo?”, s’infuriò. Mi spedì subito a livellarlo. Solo quando vidi il filmato girato dal pilota di un Cessna, mi resi conto di ciò che avevo portato a termine».
Il papà apprezzò il video?
«Per niente. Gli interessò solo osservare dall’alto il podere del suo vicino».
Chi le ha insegnato a condurre un trattore?
«Cominciai a 5 anni sul Massey Ferguson di mio padre e dello zio Romolo. Ne ho trovato uno uguale, azzurro, su un’isola della Grecia. È stato come rivedere la nostra civiltà contadina perduta».
La land art è faticosa?
«Da morire. Nella cabina del trattore non c’è l’aria condizionata, d’estate si superano i 40 gradi. Ogni volta perdo in sudore 2 chili di peso».
Le porta via molte ore?
«Fino a 8. Ma non sono in balia dell’orologio. Devo pensare. Prima serve l’idea. La disegno su carta, poi nel campo. Se è troppo umido, mi astengo: la terra non vuole».
E quando la terra vuole?
«Entro nell’appezzamento a mietitura finita. Vado avanti e indietro con il trattore e scavo nel terreno, usando il bivomere, un aratro doppio. Appena l’umidità delle zolle rovesciate evapora per effetto del sole, il disegno svanisce».
[…]
Perché si firma «AD» anziché con le sue iniziali «DG»?
«Non esiste trattore al mondo con un angolo di sterzata che consenta di tracciare la “G” di Gambarin. Ogni volta ingaggio una lotta titanica con il mezzo meccanico. Non posso fermarmi, altrimenti perdo le coordinate che ho in testa. Non vedo quello che sto facendo, devo lavorare con il terzo occhio. È come se cadessi in trance. Il trattore s’impenna, sembra un cavallo imbizzarrito. Io lo capisco: sarebbe progettato per andare dritto. Ho già rotto un paio di aratri. Ma neppure i fulmini mi hanno mai fermato».
I suoi genitori avranno apprezzato che il loro figlio sia finito sulla Cnn e sulla Bbc.
«Un pochino mia madre, soprattutto dopo che mi hanno invitato a esporre a Istanbul, nella cisterna medievale sotto la Nakkas Sanat Galerisi, dove ho dipinto maschere e facce su tappeti orientali. Ma avrebbe preferito un figlio come gli altri. Mio padre mi voleva avvocato».
Lo ha deluso.
«Andarmene dalle nebbie di Castagnaro fu come evadere dalla prigione. Da studente mi piacevano i lussi: ragazze, auto, vestiti. Me li pagavo cantando e suonando nei pianobar fra Italia, Francia e Germania. Ma persi la voce. Allora chiesi a mio padre, ormai in punto di morte, il permesso di usare la sua terra per le mie opere d’arte. “Se ti piace, fallo pure”, rispose».
La toga la rendeva infelice?
«No, anzi. Il primo ad assumermi fu Natale Callipari, del quale conservo un grato ricordo; è l’avvocato veronese che di recente ha difeso il cardinale Angelo Becciu. Negli anni Ottanta lavorai a Milano nello studio legale Catenaccio e associati, in corso Magenta. Non era la mia città, ci andai solo per l’amore di una donna. Oggi non potrei stare neppure a New York».
Perdoni se sono indiscreto, ma campa di land art?
«No, è il latifondo di famiglia a darmi da vivere. Però oggi in agricoltura non ci sono né margine di guadagno né sicurezza: solo troppe regole comunitarie e tanta fatica. Con i campi che lei vede, mio padre mantenne tre figli, io faticherei a farne studiare uno. L’aratro usato al posto del pennello mi serve per mandare messaggi senza imbrattare fontane o tingere di verde i canali di Venezia».
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