Luigi Mascheroni per "il Giornale"
Come si può rappresentare il dolore? E la vita? E la morte? Le opere di Maurizio Cattelan - 60 anni e 40 di carriera, da Padova al mondo passando per tre Biennali di Venezia e un'immensa retrospettiva al Guggenheim Museum di New York, 2011, All, giocandosi tutto - non danno mai risposte.
Offrono domande. Ma basta? «L'arte affronta gli stessi temi dall'inizio della storia dell'uomo - creazione, vita, morte - che s' intrecciano con l'ambizione di ogni artista di divenire immortale attraverso il proprio lavoro. E per farlo deve confrontarsi con un senso di onnipotenza e con il suo contrario: il fallimento. È un saliscendi di altitudini inebrianti e discese impervie. Per quanto possa essere doloroso, la seconda parte è anche la più importante. Tutte le mie mostre sono un concentrato di questi elementi».
cattelan mostra pirelli hangar bicocca
Le opere lasciano dietro di sé le domande. Ma le risposte di Maurizio Cattelan - che è qui, ma in absentia - arrivano solo per WhatsApp, tramite ufficio stampa. L'invisibilità, per le vere artistar, è il massimo della mediaticità. Mediatica (180 giornalisti accreditati, New York Times in testa), quasi invisibile negli spazi sconfinati e nel buio destabilizzante dell'HangarBicocca (e alla fine il figliolo adottivo prediletto tornò nella sua Milano) e che rischia di passare alla storia (è l'evento artistico dell'anno), la mostra personale di Maurizio Cattelan Breath Ghosts Blind prodotta da Pirelli HangarBicocca - curata da Roberta Tenconi e Vicente Todolí - è inquietante, solenne, imponente.
Ieri mattina preview per la stampa guidata dal padrone di casa Marco Tronchetti Provera («Cattelan con le sue opere svela le fratture del nostro quotidiano: ognuno poi le interpreta con i propri occhi, libero di condividerne o rifiutarne i valori»). Alla sera cena stellata dentro l'Hangar per 400 super invitati.
Domani l'apertura al pubblico, su prenotazione. E poi c'è tempo, e spazio, fino al 20 febbraio 2022. Hashtag: #davedere Trattenete il respiro, chiudete gli occhi, liberate la mente da fantasmi e pre-gudizi. Benvenuti a Breath Ghosts Blind. Cinquemilacinquecento metri quadrati di esposizione sui 15mila a disposizione dell'Hangar, una drammaturgia in tre atti che simboleggia il ciclo della vita, dalla creazione alla morte, tre anni di lavoro («Cattelan ha iniziato a parlarci del progetto nel 2018, a pensarci forse di più», racconta la co-curatrice Roberta Tenconi), tre mesi di allestimento, un capolavoro di illuminazione firmato dal direttore di fotografia Pasquale Mari, e tre opere. «Soltanto?».
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Soltanto Cattelan poteva divertirsi a riempire di vuoto il pieno dell'HangarBicocca («Uno spazio fuori scala che è una manifestazione dell'inconscio, la materializzazione dell'horror vacui»).
E così - silenzi smisurati, spazi senza tempo e massima libertà di interpretazione - eccola l'attesa trilogia di Cattelan. All'entrata dell'Hangar, nella «Piazza», ecco la piccola scultura in marmo «Breath». Dopo, lungo le interminabili navate, la riconfigurazione dello storico intervento con i piccioni per la Biennale di Venezia del 1997, poi ripresentati nel 2001: la prima volta erano «Turists», la seconda «Others», oggi sono «Ghosts», «Fantasmi». E infine, là in fondo, nel «Cubo», la monumentale installazione prodotta da Pirelli HangarBicocca per l'occasione: «Blind». La prima opera è nuova (sì, è vero: Cattelan dieci anni fa aveva detto che si ritirava, ma poi ha anche spiegato che «Il mondo cambia, e anche le mie idee») ed è una scultura in marmo, adagiata tra il nudo cemento e un sottile spotlight, composta da due figure: un uomo rannicchiato, forse un homeless, il cui profilo ricorda l'artista, e un cane, suo compagno fedele.
Sono vivi? Sono morti? Respirano? «Breath». Quello che si intuisce è che sono esseri che stanno ai margini della società, che creano più disagio a chi li guarda che a loro stessi. Non è inutile ricordare - e lo fa la curatrice - che Cattelan ha una laurea honoris causa in Sociologia. «Le sue sono rappresentazioni che suscitano profonde riflessioni sugli aspetti più disorientanti della contemporaneità».
La seconda opera è una autocitazione d'autore: un numero sterminato di piccioni tassidermizzati che ci seguono già dall'entrata, poi lungo tutte le navate, fra le travi e gli anfratti del carroponte, ovunque: a dozzine («Ma quanti sono?». Tronchetti Provera: «Indefiniti»), qualcosa fra il romantico e l'incubo, tra le Carceri di Piranesi e Il gabinetto del dottor Caligari. Possibili interpretazioni critico-artistiche della figura del piccione: l'Annunciazione (la colomba), il turismo d'arte mordi-e fuggi (i piccioni di piazza San Marco a Venezia), la paura (Gli uccelli di Alfred Hitchcock)... Sono una presenza amica o minacciosa? Ci accompagnano o ci spiano? Straniamento o inquietudine? «Ghosts».
E la terza opera, che si svela lentamente mentre si procede verso l'ultimo spazio dell'HangarBicocca, è già l'opera - iconica e incombente - della mostra: una colonna in resina nera alta 18 metri con conficcata in cima la sagoma di un aereo. Cos' è? Possibili risposte. Un monolite (2001: Odissea nello spazio) o un missile (Il dottor Stranamore) à la Kubrick. Un Menhir post-moderno, qualsiasi cosa voglia dire post-moderno, e anche Menhir. Un monumento? Un anti-monumento? No: un memoriale. Maurizio Cattelan, «il più internazionale fra i nostri artisti», come si usa dire, vive tra Milano e New York. L'11 settembre 2001 si stava imbarcando all'aeroporto LaGuardia. Fu costretto a tornare in città a piedi, in mezzo a una fiumana di gente. Ci sono voluti vent' anni per metabolizzare quell'evento drammatico.
«Gli aerei nelle torri sono un'immagine che rimase a lungo con lui», confidano i curatori. Che aggiungono: «Gli piacerebbe, in futuro, portare l'opera negli Stati Uniti». Per restituire ai newyorkesi un simbolo entrato nell'immaginario collettivo. Ed ecco la domanda da cui eravamo partiti: «Come si rappresenta il dolore?». E anche una risposta - sempre via WhatsApp - alla eterna domanda se l'arte debba impegnarsi nell'attualità od occuparsi di valori assoluti. «L'arte deve trovare il giusto equilibrio tra la cronaca del reale e la completa astrazione dal contesto in cui viene pensata e prodotta. Ogni artista che conosco tende a quell'universalità, ma solo i migliori riescono a raggiungerla. E non con tutti i lavori».
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