Victoria & Albert Museum
Cromwell Rd, Londra SW7 2R
Fashioning Masculinities: The Art of Menswear
Fino al 6 Novembre 2022
Antonio Riello per Dagospia
Il Victoria & Albert Museum, situato in South Kensington e dedicato alle cosiddette Arti Applicate, è invidiato in tutto il Mondo per il suo pazzesco patrimonio di abiti di ogni epoca e tipo.
L’esposizione in corso, curata da Claire Wilcox, Rosalind McKever e Marta Franceschini, si propone come un grande riassunto delle glorie (e delle vicissitudini) della moda maschile: Fashioning Masculinities: The Art of Menswear.
Il marchio Gucci e’ il prestigioso partner dell’ambizioso progetto. Un film e’ stato realizzato da Quentin Jones per l’occasione.
Nomi celebri del jet-set modaiolo affollano le didascalie degli abiti racchiusi nelle tantissime teche.
I capi piu’ “golosi” e gettonati sono: il tuxedo (che solo in Italia curiosamente si chiama smoking) indossato nel 2019 da Billy Porter (creato da Christian Siriano), quello che portava Harry Styles nel 2020 (realizzato da Alessandro di Michele per Gucci), l’abito da sposa della piu’ famosa drag-queen britannica Bimini Bon Boulash (2021, Ella Lynch) e infine il completo indossato ad Timothee Chalamet alla presentazione del film Dune al Festival di Venezia.
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Un centinaio di opere d’arte costellano la mostra.
Tutte assolutamente “giustissime”: da Sofonisba Anguissola a Robert Longo, da Yinka Shonibare all’ormai onnipresente Kehinde Wiley.
Si parte con la biancheria intima. Molto spazio e’ dedicato al successo di mutande e canottiere high-tech in grado di ri-modellare anche i corpi piu’ flaccidi come se fossero dei torsi di eroi greci.
E infatti in mostra si vede la copia dell’Apollo del Belvedere (vicina alle pubblicita’ di Calvin Klein).
Da Off White a Jean-Paul Gaultier (passando per Giorgio Armani) non manca quasi nessuno. Le pareti sono arricchite dalla collezione di ritratti maschili di Anthony Patrick Manieri e dalla scultura “Age of Bronze” di Auguste Rodin.
Si passa nella zona principale dove troviamo l’abito vero e proprio (nelle sue molteplici forme) e i relativi accessori.
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C’e’ una suddivisione in colori, lo spazio piu’ importante e’ ovviamente quello dedicato al nero, colore maschile per eccellenza (almeno in un mondo dominato dall’estetica capitalista-calvinista).
La fa da padrone Alessandro Michele, ma si fa notare anche Kim Jones (Fendi).
Una terza sezione - Redressed - esamina (un po’ troppo sommariamente) l’influenza dell’uniforme (militare e civile/uso lavoro) nell’universo del vestire maschile.
Immancabile un tributo al celebre Lord Brummel, l’epitome assoluta del dandy Britannico (bellissimo un ritratto ad olio di Edoardo VIII che ne diventera’, in un certo senso, l’erede naturale).
pierre cardin 1967 fashioning masculinities the art of menswear
Si procede fino al cosiddetto Pret-a-Porter dove gli stilisti sono tantissimi: Tom Ford, Hedi Slimabne, i Versace (Gianni e Dnatella), Raf Simons, Alexander McQueen, Rick Owens, Lesiba Mabitsela. Interessante e vario. Bello il completo disegnato per David Bowie da Thierry Mugler in stile clergyman. Superbo anche l’abito disegnato da Pierre Cardin nel 1967 (stile fantascienza).
L’impressione generale pero’, quando si esce, e’ quella di un acrobatico (quasi disperato) esercizio ideologico per dimostrare che non esiste di fatto il concetto di abito maschile, ma solo una forma di cliche’ di potere indossato ed esibito per secoli dalla societa’ patriarcale occidentale che, attraverso metodi tirannici e colonialisti, ha dominato minoranze abusate (donne, disabili ed omosessuali) e popoli oppressi.
Con la volata finale che caldamente suggerisce (con molto glamour in verita’…) un futuro-moda assolutamente e completamente gender-fluid.
Victoria & Albert Museum Fashioning Masculinities
Che l’abbigliamento sia sempre servito ad ogni forma di potere per evidenziare le proprie gerarchie (e per sottolineare le inevitabili forme di esclusione e oppressione) e’ verissimo.
Ma e’ altrettanto evidente che questo e’ accaduto ovunque e sempre, non si tratta insomma di una questione squisitamente occidentale e/o europea.
Questa mostra alla fine e’ un’occasione perduta: risulta onestamente ingiustificato come non si sia speso molto piu’ spazio e tempo per indagare invece le complesse ragioni antropologiche ed ergonomiche legate alla Storia delle mode maschili e le sue intrinseche ragioni.
Al V&A il materiale per fare un discorso approfondito, anche valutando e confrontando magari tradizioni orientali extra-europee, non sarebbe certo mancato.
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E’ d’altra parte comprensibile che oggi che il business della Moda debba dimostrare di essere drasticamente inclusivo e sensibile a certe impellenti istanze culturali.
Non c’e’ niente di male in questo. Cosi’ come non c’e’ ovviamente niente di strano o di sbagliato che qualcuno decida di cambiare il sesso della nascita.
fashioning masculinities the art of menswear
Ma sostenere che, per obbligatoria devozione verso questa (rispettabilissima, ma comunque assai esigua) minoranza, se un uomo (almeno all’anagrafe) non si veste con le gonne e’ un troglodita senza speranza, risulta decisamente eccessivo oltre che piuttosto ridicolo.
Anche perche’ e’ qui implicito che il troglodita’ in questione nasconderebbe in se’ l’identita’ di un odioso soggetto comunque in odore di ottuso e pericoloso maschilismo.
Voto: dal 6 al 7. Si sarebbe potuto davvero fare molto meglio (sicuramente sul piano storico).
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