Pierluigi Panza per il Corriere della Sera - Estratti
Dopo il ventennio di Paolo Baratta, il quadriennio di Roberto Cicutto a Venezia si conclude con la presentazione della sessantesima Biennale d’arte (20 aprile – 24 novembre) di Adriano Pedrosa, primo curatore sudamericano.
Presente e silente (prende appunti) il presidente entrante, Pietrangelo Buttafuoco, che a Venezia il giorno prima non si è fatto mancare nemmeno Prometeo di Luigi Nono. «Oggi avviene un passaggio di testimone. La natura internazionale della Biennale ne fa un punto di osservazione privilegiato sul mondo e l’autonomia dei direttori artistici — afferma il presidente Cicutto — è la miglior forma per procedere in questa direzione».
Dopo la doppietta di afro-mostre per Biennale d’arte e di architettura (anche quelle di Cecilia Alemani e di Lesley Lokko insistevano su «diaspora» e «decolonizzazione»), con il «primo curatore queer » (volutamente da lui dichiarato) Adriano Pedrosa si amplia oltre l’Africa la gamma dei penalizzati dalla cultura europea: la mostra si intitola Stranieri ovunque – Foreigners Everywhere ed è una vista quasi «cinematografica delle culture del Sud del mondo».
ADRIANO PEDROSA ROBERTO CICUTTO
Tra colonizzati sudamericani, diasporici, migranti, queer e outsider si capisce che l’unico veramente straniero alla mostra è il nativo bianco stanziale. La molteplicità dei passaporti è apprezzata e questo vale anche per gli artisti che esporranno nei 90 padiglioni nazionali (i nuovi entrati sono Benin, Timor Est, Tanzania, Etiopia). Cade, invece, la retorica dell’artista giovane per forza: molti sono avanti con l’età (e qualcuno defunto). Ciò è inclusivo ma, per Fabrizio Plessi, ad esempio, «un po’ retrò, anni Cinquanta». Gli artisti sono 332 ma i loro nomi sono difficili da scrivere più di una password di hotel.
(...) La parola «straniero è legata in molte lingue alla radice stranezza… e il primo significato della parola queer vuol dire strano»: quindi gli artisti esposti sono selezionati tra gli «strani» messi al bando, gli outsider, i folk e gli artisti indigeni purché trattati come stranieri nella propria terra.
La mostra corre su un doppio binario, storico e contemporaneo. Una sezione del nucleo storico riguarda il Modernismo del Sud del mondo, un tema che si incrocia «con il colonialismo e il concetto di antropofagia». Una sezione del nucleo contemporaneo è Disobedience Archive , un progetto di Marco Scotini su opere artistiche e attivismo; altre due sono sulla diaspora e sulla disobbedienza di genere tra il 1975 e il 2023: una trentina di artisti/e per una sorta di Sessantotto infinito.
Nel Padiglione centrale una parte è dedicata alla diaspora italiana e la maggior parte a ritratti di 112 artisti da tutto l’universo noto e incognito: artisti maori, artisti cinesi, colombiani, cubani, equadoregni, egiziani, coreani, da Giamaica, Libano, Malesia, Mozambico, Zimbabwe… «con maggioranza di personaggi non bianchi». Complessivamente, i nativi italiani sono meno di dieci, ma diasporici (pure Severini e Sassu sono indicati come mezzi italiani poiché morti all’estero).
claire fontaine foreigners everywhere 3
Pochi americani e pochi del Nord del mondo. C’è Lina Bo Bardi, italiana icona del Brasile (suo il rosso museo di San Paolo) con una esposizione di lavori in vetro. Si vedranno lavori di ogni tecnica, molto arts and crafts . Tornano, dunque, la mano e la materia, niente digitale, nft, IA e sperimentazioni non analogiche: «Ciò non va inteso come una reazione, è solo un punto di vista tra altri ugualmente rilevanti».
Sorprendentemente, nella mostra queer si valorizzano anche gli artisti legati da vincoli di sangue: padre e figlio, cugini, zio e nipote, madre e figlia guaraní (solo Pedrosa poteva trovarli), Susanne Wenger (austro-nigeriana) con il figlio adottivo, marito e moglie attivisti iracheni. Questo colpo di coda woke finisce con l’essere, forse involontariamente, in tradizione con la storia dell’arte europea che si tende a rigettare: prendiamo Tintoretto, veneziano, bianco, stanziale, al servizio della committenza e con una bottega portata avanti da figli che fanno lo stesso mestiere. Tra Cancel culture e inclusività non vorremmo che andassero bene padre e figlio tintori dell’Amazzonia, ma non delle botteghe italiane.
PIETRANGELO BUTTAFUOCO ALLA BIENNALE DI VENEZIA - MEME BY EDOARDO BARALDI
Nel Padiglione delle Arti applicate realizzato con il Victoria and Albert Museum espone la brasiliana Beatriz Milhazes con una collezione di tessuti. A Forte Marghera la non diasporica Nedda Guidi (ma questo è al di fuori della rassegna del curatore). Il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini è a cura di Luca Cerizza, che espone Massimo Bartolini (con testi di musicisti e scrittori).
Torna la Santa Sede, che espone nella casa di reclusione femminile alla Giudecca creando attività utili. Catalogo e guida breve dello studio Campo di San Paolo a cura di Pedrosa e altri (circa cento autori per trecento voci di artista, «molto polifonico»).
Risvolto biografico: «Viaggiando molto per il mondo so cosa vuol dire essere del Sud del mondo», conclude Pedrosa. Del sud, almeno per gli italiani, sarebbe pure il catanese (musulmano) Buttafuoco: vedremo se sarà in linea o se il suo sarà un Sud Mediterraneo.
meloni buttafuoco CLAUDIO MUTTI - A DOMANDA RISPONDE- CON PREFAZIONE DI BUTTAFUOCO