Francesca Amè per “Vanity Fair”
Foto di David La Chapelle
«Credo nei miracoli, ci credo fortemente». Da Los Angeles David LaChapelle parla attraverso lo schermo: sorride sempre, non bada al tempo che passa, generoso nelle parole.
«Ogni piccolo atto di gentilezza puo provocare enormi cambiamenti», dice e cita passi della Bibbia, che legge ogni giorno e tiene al suo fianco. Non c’e da rimanerne troppo sorpresi: LaChapelle, 59 anni, ex ragazzotto impacciato del Connecticut diventato a New York enfant prodige grazie ad Andy Warhol che lo assunse nella sua factory e da li stella nell’olimpo della fotografia d’autore e di moda, da tempo vive in disparte in una fattoria alle Hawaii.
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«Nel 2006 mi sono messo in pausa: ben prima del Covid ho capito che dovevo rallentare.
Ero un workaholic: avvertivo un’enorme responsabilita nei confronti dei miei genitori, perche non avevo finito il college ed ero stato un ragazzo complicato e volevo dimostrare di valere.
Un giorno, durante un matrimonio di amici in California, ho realizzato che quello era il primo momento di pausa che prendevo da 11 mesi. Mi ero perso, ero drogato di lavoro: dovevo tornare “da me”».
In questi anni alle Hawaii infarciti di viaggi, mostre e collaborazioni prestigiose in mezzo mondo ha potenziato la sua ricerca personale, spirituale e fotografica. «Non sono un profeta: la mia lingua e la fotografia. I miei scatti dimostrano che i miracoli esistono».
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Li contempliamo ora in Italia in David LaChapelle. I Believe in Miracles, al Mudec
di Milano fino all’11 settembre: prodotta da 24 ORE Cultura, curata da Reiner Opoku e
Denis Curti insieme allo studio LaChapelle, presenta oltre 90 opere tra grandi formati, produzioni inedite (che abbandonano i caratteristici colori saturi e approdano a una luce piu realista) e una video installazione.
Oltre ai lavori di repertorio ultrapop e ai ritratti delle star (da Madonna a Kim Kardashian), molte foto denunciano la vulnerabilita del pianeta e l’umana fragilita. Davanti agli ultimi struggenti scatti realizzati durante la pandemia si resta senza parole: le foto di LaChapelle si aprono alla speranza.
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Come fa a restare ottimista, nonostante tutto?
«Grazie alla fede. Seguo le notizie dall’Ucraina e prego. Facciamo enormi progressi tecnologici e nessun progresso spirituale: questa guerra mi colpisce particolarmente».
Perche?
«Mia madre e lituana, e stata profuga a Berlino. Parla lituano, tedesco, russo: i confini delle terre in cui e vissuta sono cambiati molte volte. Ha ricordi talmente terribili della Seconda guerra mondiale che non e mai voluta tornare in quella parte d’Europa. Sento questo conflitto sotto la mia pelle e credo che la fotografia abbia un dovere morale».
Che sarebbe?
«Il fotogiornalismo deve mostrare la verita».
La sua fotografia pero fa altro: ci porta «altrove», in altri mondi e in altri spazi.
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«Perche questo e il compito dell’arte. Di che cosa si nutrono oggi i nostri occhi? Sfogli il catalogo di Netflix e conti quanti film, serie, documentari parlano di morte. Siamo ossessionati dal male: sangue, omicidi, gialli, horror sono il nostro intrattenimento preferito.
Lo sono fin dai tempi dei Romani, nel Colosseo, a dire il vero: cerchiamo distrazioni con spettacoli terribili. Ma dobbiamo stare attenti a cosa esponiamo i nostri occhi. Io non voglio nutrire “la bestia”».
Prego?
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«La bestia e questa tecnologia piena di cose oscure, spaventose e noi artisti siamo chiamati a mostrare alternative. Organizziamo viaggi su Marte e non ci rendiamo conto che il tesoro e qui: e questa Terra che stiamo trascurando. Essere buoni
e compassionevoli l’uno con l’altro e con la natura e l’unico strumento che abbiamo per evolverci».
E sempre stato cosi saggio?
«Non sarei quello che sono se non fossi sopravvissuto per miracolo a tante guerre personali».
La prima battaglia quando e stata?
«Alle superiori ero un ragazzino bullizzato: c’era un gruppetto di ragazzi che mi aspettava fuori da scuola, alzavano le mani, mi umiliavano di continuo. Ci sono stati giorni in cui pensavo di uccidermi tanto questo era intollerabile.
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Poi – e difficile da spiegare agli altri, solo tu sai esattamente quel che succede nella tua testa in quel momento, perche questo e il miracolo, avviene in un clic – ho trovato dentro di me una forza che non pensavo di avere. Ho lasciato la scuola, ho preso un biglietto per New York: li ho scoperto “la mia gente”e tutto e cambiato. Ma un’altra guerra mi aspettava».
A New York? Andy Warhol sostenne presto il suo talento: in pochi anni era gia un fotografo famoso, la sua carriera decollava.
«Mentre vedevo morire il mio fidanzato di 24anni. L’Aids e stato il mio Vietnam. I miei amici si ammalavano e morivano: ero certo che sarei morto presto anch’io. Devastato, mi sentivo impotente. E stato allora che ho avuto come una visione e ho cominciato a capire: un altro miracolo».
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Quale?
«Ho giurato che se fossi sopravvissuto avrei dedicato la vita a mostrare attraverso la fotografia come potrebbe apparire l’anima e i nostri occhi sapessero riconoscerla. Mi sono interessato alle pose dei Santi, a lasciarmi sedurre dal sovrannaturale e dal mondo spirituale, ho sperimentato colori saturi, irreali, iperbolici provenienti da un Altrove
che dobbiamo imparare ad accogliere dentro di noi».
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La pandemia ha cambiato il suo modo di fotografare?
«Mi sono lasciato ispirare di piu da Madre Terra, dai campi attorno alla mia fattoria, dagli animali di cui mi prendo cura: ho cercato la verita della loro luce, il miracolo di un possibile mondo nuovo, dopo tutta questa sofferenza. Ho testato questo sguardo nelle serie dedicate ai fiori e in paesaggi urbani come Revelations, che e un bacio tra due anziani in un contesto post-apocalittico. Sara cosi il futuro? La vita sarebbe noiosa
se conoscessimo tutte le risposte: lasciamoci sorprendere».
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