Gianluca Marziani per Dagospia
Il garage diventa grotta ma anche portale d’accesso verso una breve sospensione del rituale pandemico. Dal caos natalizio si scivola in un antro buio che accoglie il pubblico con una gigantesca frase sul muro, An Unguarded Moment, titolo di una mostra (a cura di Antonello Tolve, catalogo Maretti Editore) che inaugura Auditorium Garage, il nuovo spazio per l’arte visiva di Auditorium Parco della Musica.
Ad accompagnarci nel mondo parallelo di un notturno resiliente ed emozionale è Adrian Tranquilli, artista tra i più talentosi e visionari della sua generazione (nato a Melbourne nel 1966, vive e lavora a Roma), colui che meglio di altri ha intuito il potenziale etico e concettuale del mito classico, ritarato sul Novecento dei culti mediatici, in aderenza con la più potente, catartica e immaginifica entità salvifica, ovvero, il supereroe col tratto leggendario degli archetipi morali.
Batman rimane la sua sentinella favorita, un alter-ego del proprio lirismo spirituale, specchio prismatico di un’essenza narrativa nei tragitti delle umane solitudini, degli antagonismi sociali, delle molteplici identità culturali che direzionano gli esiti del mondo vivo.
L’artista si esprime con linguaggi intrecciati e olistici, favorendo una centralità geodetica dei corpi scultorei, sentinelle su scale che tendono al tipo 1:1 e definiscono l’energia dentro il buio della ragione, la luce leopardiana del lampo morale, l’intensità tematica dei percorsi gradualmente affrontati.
Nelle diverse zone si entra in una specie di panopticon immersivo, simile ad un metaverso antologico pensato per Oculus: angeli neri, figli di un Bernini postmoderno, che dormono come pipistrelli ancorati al soffitto; volti del Joker su dadi che diventano colonne di un tempio interiore; proiezioni video su grandi schermi che debordano dentro le stanze cavernose; fotografie che ci regalano un ciclo capitolino sulla maschera di Batman, indossata da emarginati e spiriti solitari in una visione che anticipa l’esordio di Gabriele Mainetti e traccia la forma bastarda di una Roma biblicamente metabolica.
Adrian Tranquilli appartiene alla generazione cresciuta negli anni Novanta, quella che ha digerito l’avvento della cultura digitale senza disperdere il bagaglio pedagogico delle avanguardie. Nel suo processo semantico entrano codici antropologici, riletture dei temi sacri dentro una laicità ad alto tasso spirituale, brandelli sparsi di una seduzione per la notte meditativa, per la coscienza del tempo perduto, per la malinconia lancinante dei suoi guerrieri morali. Il garage dell’Auditorium si srotola come un palcoscenico dark di gironi metafisici per l’espiazione universale, come se fluttuassimo nella coscienza sofferente del mondo in crisi, dentro l’anima sanguinante degli eventi a cui ognuno di noi appartiene.
La creatività purissima del fumetto si insinua nelle radici d’ispirazione del nostro artista, istiga l’ingaggio delle sue sculture tra Medioevo e Novacene, alimenta le narrazioni di un testo che accompagna spesso le opere, in particolare nei progetti video coi loro statement da annunciazioni testamentarie. Tranquilli ha ben compreso il potenziale letterario del mondo alla Bob Kane, dei codici morali dietro le narrazioni di casa DC Comics. Lo ha fatto senza compiacimento facile, senza piegarsi al rituale ironico e acrilico di una traduzione adolescenziale;
al contrario, ha virato l’estetica verso un’attinenza relazionale dalla presenza solenne e ieratica, plasmando comandanti in emergenza cosmica che dormono idealmente nei ventri di Henry Moore, fiancheggiando i camminatori di Alberto Giacometti, portandosi sulle spalle i nuclei cosmici di Constantin Brancusi, volando via sulle macchine utopiche di Panamarenko, azionando caldaie con meccaniche struggenti alla Jean Tinguely, guardando il mondo dalla visuale onirica di Max Ernst e James Lee Byars.
opere esposte di adrian tranquilli
Da marziano a Roma mi chiedo spesso perché voi umani usiate pochissimo la musica nelle mostre d’arte visiva. Sembra un pudore plastico, una paura per le emozioni crescenti, altrimenti non si spiega l’assenza di colonne sonore lungo i percorsi espositivi. Adrian Tranquilli, in controtendenza da giusta tendenza, azzecca l’intero progetto e usa i brani come un abito di aderenze e cuciture, una geografia sonora che scorre liquida attorno alle installazioni, nel cuore dei suoi video, dentro il buio degli angeli sospesi.
Esco con molte immagini impresse nella memoria visiva. Sento echi del mio pianeta d’origine, argini interiori che cedono per lasciar filtrare le forme cosmiche di Adrian Tranquilli, per schiarire azioni iconografiche dalla pressione incisiva. Negli occhi ho ancora il blu astronomico di Klein, usato dal nostro artista per un angelo che tiene in equilibrio un’asta di prezioso metallo, metafora viva che lascia margine d’interpretazione mentre si adagia nel cuore dei ricordi ancestrali e veggenti.
Il futuro non è mai stato così imperfetto.
Il passato non è mai stato così vigile.
Il presente non è mai stato così archeologico.
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