Francesco Bonami per il Foglio
Domenica si è chiusa la Mostra di arti visive della Biennale di Venezia curata da Cecilia Alemani con più di 800 mila biglietti venduti, un record assoluto.
Nonostante questo successo concreto nel mondo e nel paese reale, Vincenzo Trione sul Corriere della Sera del 24 novembre ha iniziato una surreale riflessione polemica, completamente scollata dalla realtà dei fatti, domandandosi se non sia arrivato il momento di ripensare la più importante istituzione culturale italiana a livello internazionale.
Secondo Trione, la Biennale è ancorata a un modello culturale novecentesco e obsoleto. Cita un saggio del filosofo tedesco Theodor Adorno che nel 1966 vedeva i confini tra le varie discipline artistiche dissolversi. Da questa dissoluzione delle arti dovrebbe uscire la nuova Biennale, attualmente sorda, come la fortezza Bassani del romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, alle mutazioni del presente. Almeno secondo l’autore dell’articolo.
Stimolato forse dal cambio di guardia alla presidenza del museo Maxxi di Roma dove Alessandro Giuli ha preso il posto di Giovanna Melandri, Trione prova a disarcionare con un anno di anticipo Roberto Ciccutto, presidente in carica dell’istituzione veneziana ponendolo davanti a un bivio virtuale, poco chiaro; forse, memore e fiducioso di una gestione molto novecentesca della cultura da parte del potere politico, autocandidando se stesso alla guida della Biennale del futuro.
Ora, a Trione sfugge qualcosa. Il fatto prima di tutto che l’arte, in tutte le sue manifestazioni, la cambiano le persone che a loro volta cambiano con i tempi, non le istituzioni culturali destinate a promuoverla. L’arte muta con le mutazioni sia degli autori che degli spettatori, non con i cambiamenti del potere e lo spoils system della politica – e “to spoil” in inglese significa anche “rovinare”.
L’altra cosa che sfugge a Trione è che si può teorizzare quanto vogliamo la mescolanza delle discipline artistiche ma alla fine la gente normale – non gli storici dell’arte, i critici, i curatori, gli artisti – continua a voler vedere l’arte in modo tradizionale. La gente guarda un film perché vuol vedere un film, ascolta la musica perché vuol ascoltare la musica, va al teatro per vedere teatro, va a uno spettacolo di danza per vedere gente ballare, va a una mostra di architettura per capire il mondo che abitiamo. Un libro è un libro, non un giradischi o una televisione.
Se uno compra un romanzo e aprendo la copertina esce fuori una canzone forse passa a un altro libro, più novecentesco. Trione stesso d’altronde non ha usato Instagram o Twitter per sottolineare la “crisi” d’identità della Biennale, ma il classico e antico editoriale su un quotidiano. Conscio che scripta manent, tweet volant, in particolare nelle sale dei ministeri dove sono tutt’orecchi.
Paradossalmente il più sordo di tutti è forse proprio Trione. Non pare sentire quello che hanno appena detto le 800 mila e passa persone che hanno comprato un biglietto, la maggioranza delle quali sicuramente non è esperta d’arte contemporanea e nemmeno al corrente di chi fosse Adorno. Cosa hanno detto? A noi dei confini liquefatti dell’arte non importa molto. Veniamo alla Biennale perché solo qui possiamo avere accesso a un infinità di stimoli creativi diversi che non ci chiede altro che di essere goduta. Questo hanno detto, non “siamo stanchi di tutta questa vecchia fuffa!”.
La fortezza Biennale sarà forse a un bivio nel deserto, ma sia bivio che deserto sono molto e felicemente affollati. Cambiare il senso di marcia non ha senso se non per “spoil”, rovinare tutto. L’articolo di Vincenzo Trione mi ricorda la prima strofa della poesia L’aquilone di un grande autore del ’900, Giovanni Pascoli: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico: io vivo altrove, e sento / che sono intorno nate le viole”.
alessandro giuli foto di bacco