Pierluigi Panza per il "Corriere della Sera" - Estratti
In Italia anche i tubi Innocenti possono essere colpevoli. Per la Biennale 2024 il curatore del Padiglione italiano, Luca Cerizza, ha scelto il progetto, sonoro fin dal titolo, Due qui / To Hear dell’artista Massimo Bartolini, incentrato sul tema dell’ascolto. «In un’epoca segnata dal rumore comunicativo, l’ascolto — afferma il curatore — è un’apertura verso l’altro, un segno di rispetto».
Ascoltare è molto inclusivo, ma come proporlo in uno dei luoghi di visita più caotici del mondo come i padiglioni della Biennale, che sembrano navate di una chiesa, ma non sono altrettanto silenziose?
L’idea di Massimo Bartolini è stata quella di creare una foresta sonora di tubi Innocenti, con al centro una fontana che sembra progettata dall’ufficio tecnico di un piccolo comune. Dietro ci sta un complicato lavoro concettuale, studi sinestetici che rimandano al musicista Alexander Scriabin e molto altro, per esempio l’idea della provvisorietà che il ponteggio, per sua natura, esprime.
«Il ponteggio visualizza una rete di forze — afferma Bartolini — non allude a niente, circonda, come un bosco, uno spazio. La sua evidente provvisorietà e modularità nega la pretesa di essere personalità: esalta il sacro senza Dio che è in ognuno di noi».
La musica elettronica di Caterina Barbieri e Kali Malone che fuoriesce da queste 78 canne d’organo che sono i tubi Innocenti muta a seconda di dove ci collochiamo e accompagna il meccanico minimalismo del Padiglione, che esprime il concetto, direbbe Alberto Arbasino, di essere «senza»:
Un Paese senza (saggio scritto nel 1980 dallo scrittore di Voghera), uno spazio senza, il senza come atto di liberazione… Nell’altra navata del Padiglione, infatti, c’è solo una «lunga canna d’organo», una canaletta lunga decine di metri che emette un suono di La bemolle grazie a un ventilatore, con appoggiata sopra una statuetta di un Bodhisattva, colui che ha raggiunto l’Illuminazione e invita gli altri a non agire in favore della contemplazione, del raggiungimento dell’impersonale.
Luca Cerizza e Massimo Bartolini
All’esterno, nel Giardino delle Vergini, da altoparlanti fuoriesce, invece, la musica minimalista di Gavin Bryars alternata ai testi di Nicoletta Costa e Tiziano Scarpa, il cui scritto rimanda al contesto del giardino, all’heideggeriano «aver cura» della Terra e del paesaggio. Periodicamente, i testi sono letti da speaker.
Bartolini è un veterano della Biennale: la prima partecipazione risale al 1999 e da allora ha realizzato complesse sculture sonore, ma ha anche sperimentato altri media e pure performance , un linguaggio forse più adatto del solo suono per riempire quell’enorme doppio ventre di balena che è il Padiglione italiano.
Il Padiglione sarà ufficialmente inaugurato questo pomeriggio dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che in una breve nota ha sottolineato l’importanza dell’ascolto «come un’opportunità di crescita personale e collettiva», che nel Padiglione si trasforma in una sorta di «viaggio filosofico.
Prestare orecchio alle voci che emergono dal basso, captare il magma sottostante la superficie della vita sociale e culturale significa aprire uno spazio per la genuina espressione dell’umanità in tutte le sue sfaccettature». Questo ascolto è anche una metafora per prestare orecchio alle voci per ora inascoltate.
Forse anche per questo, ieri il ministro si è incontrato con l’omologa della Nigeria, Hannatu Musawa, per illustrarle la collaborazione «paritaria e non predatoria» del Piano Mattei.
Un concetto opposto a quello raccontato da un filmato di Alessandra Ferrini in loop nella mostra ai Giardini Stranieri Ovunque , curata da Adriano Pedrosa, in cui si sostiene che dall’epoca coloniale, all’incontro Berlusconi-Gheddafi al Piano Mattei nulla è mutato nei rapporti tra Italia e Libia (più in generale Africa).
Ieri pomeriggio il ministro era all’Arsenale e ha visitato la mostra. Dei tre paradigmi sui quali si fonda il Padiglione italiano, ascolto, visione e contemplazione, il primo è disturbato, il secondo minimal e il terzo resta un traguardo da raggiungere ad personam.
Bisognerebbe proprio essere solo «due qui» per «to hear» la flebile musica elettronica che esce dai tubi e raggiungere un biennalistico nirvana d’acciaio: ma la Biennale si aspetta una chiassosa folla di 800 mila visitatori che attraversano gli sterminati padiglioni in un fluido battibaleno per farsi conquistare da una emozione.
Al di là delle intemerate di Vittorio Sgarbi, che cercò di fermare la nomina di Cerizza (docente alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, come lo è stato anche Bartolini) quando era sottosegretario, e che oggi parla di voler fare «un esposto» sul Padiglione in quanto rappresenta «un danno all’erario e insulto all’umanità», c’è da chiedersi se stia pagando la tendenza — iniziata dal precedente ministero e solo proseguita, quest’anno, dall’attuale direttore generale per la Creatività del ministero Angelo Piero Cappello — di assegnare a un solo artista un padiglione così vasto, tre-quattro volte più grande di quello degli altri Paesi.
È il caso di Germania (che pure, ogni volta, trasforma architettonicamente il proprio padiglione che mal sopporta), Francia, Regno Unito e Stati Uniti, i cui spazi sono pensati per le singole esposizioni di Yeal Bartana con altri, Julien Creuzet, John Akomfrah e Jeffrey Gibson (opere sui nativi vivaci, ma abbastanza naïve ).
Credo che per l’Italia la possibilità di vincere il Leone d’oro siano scarse, ma ritengo che non conteranno solo gli aspetti estetici nell’attribuzione del riconoscimento, che sarà annunciato sabato (ieri pomeriggio, ad esempio, l’inaugurazione del «padiglioncino» dell’Ucraina era sovraffollato di critici e giornalisti e dall’ex calciatore Shevchenko).
A memoria, l’ultimo Padiglione italiano davvero commovente fu quello curato da Cecilia Alemani che comprendeva tre artisti, due dei quali, Roberto Cuoghi e Giorgio Andreotta Calò, proposero allestimenti convincenti.
padiglione israele biennale venezia la biennale 2024 pedrosa buttafuoco biennale 2024