Lorenzo Madaro per Repubblica
«Sono partenopeo e parte romano», puntualizza spesso il critico Achille Bonito Oliva con la sua istrionica ironia “totoista” — le sue origini campane lo rendono ancor più vicino all’immaginario di Totò, suo maestro ideale di riferimento — per precisare un suo legame profondo con la città e i suoi ritmi.
Nella grande mostra che lo omaggia al Castello di Rivoli — «Sono passato da curatore a curato» — emerge a chiare lettere il rapporto che ha avuto con Roma e i suoi artisti. È questo infatti il teatro in cui si sono svolte alcune tra le più sue significative imprese. Vissuta di giorno e di notte — si considera anche un grande ballerino — è convinto che si possa «fare cultura in tanti modi».
Anche con il comportamento. Il primo incontro con Roma?
«Era il 1967, fino a quel momento ho abitato a Napoli, ero un poeta visivo e sperimentale, avevo fatto parte del Gruppo 63. Fu un anno di transizione, passai dalla poesia alla prosa. Le prime mostre curate a Napoli alla Libreria Guida mi consentirono di stabilire un primo contatto con Roma, attraverso gli incontri con gli artisti Pino Pascali e Renato Mambor.
Nel 1968 mi sono trasferito qui, mi sentivo garantito dall’immortalità di questa città, mi sembrava di poter avere uno spazio di espansione e crescita in libertà. Nel ‘67 avevo conosciuto anche Giulio Carlo Argan, che molti anni dopo mi fece scrivere il volume sull’arte fino al 2000 del suo manuale.
A Roma cominciai a stabilizzare il mio dialogo con gli artisti, nel 1970 a Montepulciano curai la mostra Amore mio, che sorprese l’ambiente artistico e culturale italiano ribadendo l’autonomia dell’arte e degli artisti, in un momento in cui nel vocabolario culturale imperversava la parola “Politico”».
Fu una mostra fondamentale, come documentato anche oggi al Castello di Rivoli. Lì incontrò Graziella Leonardi Bontempo, collezionista e mecenate d’arte.
«Fu il mio braccio armato. Nello stesso anno feci la mostra Vitalità del negativo a Palazzo delle Esposizioni, Graziella mi permise un’apertura nuova. Con la sua associazione Incontri internazionali d’arte a Palazzo Taverna cominciammo a massaggiare il muscolo atrofizzato delle istituzioni romane.
Poi nel 1978 iniziai il mio percorso alla Facoltà di architettura come docente di storia dell’arte contemporanea. Fui accolto con timore, dato il mio carattere espansivo ed esplicito. Avevo però un rapporto profondo con gli artisti, da Vettor Pisani, a Gino De Dominicis a Mambor. La città non si oppose alla mia invasione, anzi c’era affetto».
Non è stato molto amato, soprattutto dagli allievi di Argan che in quel momento si affacciavano, come lei, sulla scena romana e non solo. Maurizio Calvesi, per esempio.
«Io li ho sempre chiamati “arganauti”. Cominciarono ad avvertire l’invasione del mio lavoro, guardavano al mio rapporto con Argan con invidia, ma accettai il confronto con una certa frontalità e nel mentre nascevano le mie mostre rivoluzionarie, anzitutto Contemporanea nel 1973. Ribadisco che tutto ciò avvenne con il sostegno della diarchia Argan e Palma Bucarelli, che dirigeva la Galleria nazional d’arte moderna».
Ha avuto molti nemici?
«Come no! Io ho sempre coltivato i miei nemici, non ho mai indietreggiato. Ho sempre risposto con strafottenza, che provocava a tutti loro un complesso di inferiorità.
Io sono erotico, erratico ed eretico, come diceva Licini. Ho avuto qualche nemico anche nel mondo degli artisti, penso a Piero Dorazio, ogni volta che facevo una mostra lui ed altri gridavano allo scandalo e cercavano di impedirmi di lavorare».
“Contemporanea” ha cambiato la storia delle mostre: per la prima volta convivevano le arti visive, il cinema sperimentale, la performance, la musica e il design. Si tenne in un luogo innovativo, un garage, quello di Villa Borghese.
«Portai a Roma un pubblico internazionale, d’altronde per me questa città è stata una fucina, un luogo di espansione culturale e teorica. Graziella poi mi permise di elaborare manifestazioni inedite. Di giorno parlavo con tutti, la notte con Gino (De Dominicis, ndr) andavo in discoteca. Si fa cultura in tanti modi, anche con il comportamento. L’arte è la vita, quindi».
Dove andavate a ballare?
«In tanti locali, al Bella blu, per esempio. Io sono un critico “notturbino” ed un grande ballerino. Scoprivamo tanti locali e li facevamo diventare di moda. Avevo un mio tavolo in tutte le discoteche. Ma per me Roma è stata anche la città della critica, grazie ad Argan e a Cesare Brandi, con cui ho avuto un rapporto profondo. E poi gli artisti hanno capito il mio comportamento. Non si sono sentiti espropriati ed io non mi sento un artista, neanche quando ho posato nudo su Frigidaire, la rivista diretta da Ambrogio Sparagna».
Lei definisce gli artisti «miei nemici più intimi». Chi sono stati?
«Oltre a quelli che ho già nominato, sicuramente Mario Schifano e Alighiero Boetti e poi naturalmente Francesco Clemente, Mimmo Paladino ed Enzo Cucchi, con cui abbiamo un rapporto di molti decenni, direi famigliare».
Parliamo di Schifano.
«Con Schifano ho avuto un grandissimo rapporto, l’avevo conosciuto a Napoli nel 1976 da Lucio Amelio. Sono stato padrino del figlio, quando Mario è morto piangevo come un vedovo. Era una persona libera, autonoma. Non usciva mai di casa, lavorava sempre con la tv accesa. Il nostro rapporto è stato il più lungo e continuativo di tutti. Una volta mi vide molto soddisfatto per il ritratto a due teste che mi aveva fatto Sandro Chia, una adulta e una infantile. Dopo una settimana mi fece consegnare un mio ritratto con tre teste. Mario era così».
Anche Germano Celant è stato un nemico?
«Io e Celant eravamo come Bartali e Coppi, siamo gli ultimi critici. Tra noi non c’è stato mai conflitto, ma confronto. L’arte italiana del dopoguerra ha avuto due soli movimenti internazionali, l’Arte Povera e la Transavanguardia».
Il Castello di Rivoli, uno dei grandi musei internazionali, le dedica una mostra voluta dalla direttrice Carolyn Christov-Bakargiev. Come ci si sente ad essere oggetto di un progetto espositivo?
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«Questa mostra a Rivoli mi costringe a pormi una domanda: “Cosa farò da grande?”. Laura Cherubini, Cecilia Casorati, Paola Marino e Stefano Chiodi, con Carolyn, hanno immaginato una mostra che contiene diverse sezioni tematiche, si passa dalla parte espositiva a quella comportamentale e saggistica. Sono passato da curatore a curato».
Se dovesse consigliare cinque luoghi da visitare a Roma, a quali penserebbe?
«MAXXI, Galleria nazionale d’arte moderna e Macro. Mi fermo a questi».
Lei ha casa e studio a via Giulia. In un’intervista dichiarò di convivere con pochissime opere d’arte, perché quando torna a casa non vuole «vedere sangue alle pareti». Come mai?
«Non ci sono opere con cui mi identifico. Ma ci sono artisti che stimo molto».
A Roma, quali?
«Enzo Cucchi, Emiliano Maggi, Giuseppe Ducrot, Gianni Politi, Pietro Ruffo e Shay Frish. Poi a Roma ho tenuto a battesimo molti artisti, tra cui quelli della Scuola di San Lorenzo, un assembramento felice di Piero Pizzi Cannella, Gianni Dessì e di tutti gli altri».
Ma c’è almeno un’opera da cui non si separerebbe mai?
BONITO OLIVA FRIGIDAIRE Bonito Oliva by Ducrot mario schifano Filiberto Menna,Bonito Oliva e Joseph Beuys Assemblea durante Arte povera + Azioni Povere, Amalfi (1968) - Da sinistra- Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Filiberto Menna, Gillo Dorfles Achille Bonito Oliva Filiberto Menna bonito oliva achille bonito oliva ACHILLE BONITO OLIVA bonito oliva franco angeli castellani e pino pascali dago e achille bonito oliva Achille Bonito Oliva achille bonito oliva ph angelo puzzutiello 2011 dago e bonito oliva achille bonito oliva arbore e bonito oliva achille bonito oliva bonito oliva e ceccarelli roberto benigni achille bonito oliva nicoletta braschi foto di bacco (1) roberto d agostino achille bonito oliva foto di bacco achille bonito oliva my italy Achille Bonito Oliva Gucci achille bonito oliva my italy achille bonito oliva ph sandro giustibelli 1981 achille bonito oliva alla vii biennale di parigi 1971 Renato Nicolini con Achille Bonito Oliva Lucio Amelio Leo Castelli Achille Bonito Oliva Bonito Oliva Francesco Clemente XLV Biennale di Venezia 1993: (da sinistra) l’artista Enzo Cucchi, il gallerista Emilio Mazzoli, il filosofo e scrittore tedesco Ernst Junger (Leone d’Oro per la cultura) e Achille Bonito Oliva Dorfles, Bonito Oliva e Umberto Eco
«Me stesso».