Dal Catalogo ''Second Skin. Il tatuaggio nell’arte contemporanea'' a cura di Luca Beatrice e Alessandra Castellani
Dal 09 Novembre 2018 al 03 Marzo 2019
TORINO
LUOGO: MAO Museo d’Arte Orientale
Sono almeno due le ragioni per le quali possiamo legittimamente considerare il tatuaggio tra i nuovi linguaggi dell’arte contemporanea. Per giunta adoperando definizioni così diverse tra loro da risultare persino contraddittorie. Esaminiamole distintamente.
La prima: del tatuatore si apprezzano l’abilità, l’estro, la fantasia creativa e lo stile. Il suo fare deriva dal disegno -dunque da un disciplina storicamente compresa tra le Fine Arts- ma il suo trasferimento indelebile sulla pelle lo proietta di diritto, in quanto uso anomalo, nell’universo delle arti applicate, arti minori, arti decorative, che gli inglesi chiamavano Arts & Crafts. Fuori dunque dall’Accademia, il che oggi non costituisce certo un problema o un ostacolo, anzi per questa stessa ragione molto più a contatto con le mutazioni del gusto nel presente, come il design e la moda.
E’ dimostrato che le “nuove arti minori” rispondano al bisogno di personalizzazione e di esclusività rispetto al prodotto standardizzato e seriale derivato dalla Pop Art ed estremizzato dal Minimalismo. “L’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno”, scrive Richard Sennett.
wim delvoye, eugenie, 2005, maiale imbalsamato e tatuato, courtesy gian enzo sperone
L’esecutore di tatuaggi, inoltre, mestiere sempre più in voga nelle generazioni recenti (anche questo è un dato) a vantaggio di un pubblico altrettanto giovane, lavora in stretta connessione con il committente: ci mette molto del suo ma deve corrispondere ai desideri e alle aspettative di chi gli affida una o più porzioni del proprio corpo. Chi sceglie di farsi tatuare un disegno, un’immagine, una scritta prende, nella più parte dei casi, una decisione irreversibile. E’ pertanto presumibile che consideri il valore aggiunto della qualità esecutiva, non proprio implicito nei linguaggi dell’arte contemporanea, esaltando ad esempio quel “fatto a mano”, carattere più dell’artigiano che dell’artista.
valie export, tatoo ii (1970) die stehende, 1995
La seconda questione, invece, non ha che fare tanto con considerazioni estetiche quanto piuttosto storico-critiche. Il Ready Made di Marcel Duchamp, oltre a sottolineare l’importanza fondamentale del gesto dell’artista, il ruolo primario del contesto nello stabilire limiti e confini tra cosa sia arte e cosa no, sostituendo la forma creata e manipolata con l’oggetto reale “già bello e pronto” indistinguibile dall’oggetto d’uso, ha aperto le porte del museo a una gran quantità di materiali anomali che non fanno parte in alcun modo della tradizione dell’arte.
“Marcel Duchamp -come scrisse Achille Bonito Oliva nel catalogo della mostra L’asino e la zebra, tra le prima a prendere in esame le tendenze del tatuaggio contemporaneo- è l’artista che nel Novecento adotta in termini esplicitamente espressivi il corpo quale luogo capace di proiettare verso l’estero segni inscrivibili dentro l linguaggio dell’arte. Egli si fa scolpire sula nuca una stella, segno di elezione e di supremazia: il capo infatti è la parte del corpo dove avvengono le trasformazioni del pensiero e dunque costituisce la zona privilegiata del corpo”.
valentina zanobelli, francisco, tatuatore di origine messicana, con tatuata la madonna di guadalupe, los angeles 2018
Per tutto il XX secolo è una corsa a inseguire linguaggi sempre più nuovi ed estremi: la scultura diventa installazione e si contamina con il design; la pittura sfonda la bidimensione per aggredire lo spazio; fotografia, cinema e video vengono progressivamente accettati. Fino alla rivoluzione, sviluppatasi a partire dagli anni Settanta, che ha per protagonista il corpo.
Non più rappresentato ma agito, porta su di sé i segni della sofferenza, sfida le leggi della gravità, resiste, si esibisce nello spazio e lotta contro il tempo. Un corpo politico, che chiama a raccolta il pubblico come a teatro per assistere all’evento e testimoniare ciò che è accaduto veramente. Body Art, Performance, Happening indicano, con significative sfumature, più o meno una stessa forma di arte che innanzitutto coincide strettamente con la realtà.
Utilizzando il corpo, invadendolo di segni, il tatuaggio nell’arte contemporanea è figlio legittimo della Performance, in particolare della sua mutazione genetica avvenuta negli anni Novanta, quando all’etica si è sovrapposta l’estetica e quando diversi artisti hanno preferito sfumare il proprio narcisismo di primi attori in scena scegliendo, piuttosto, di lavorare come registi fuori scena sul corpo degli altri. E qui la psicanalisi potrebbe scomodare il termine sadismo, ma non è questa la sede per un ragionamento appropriato.
tattoo di horiyoshi iii sensei, foto di zozios
Quale, dunque, tra queste due polarità, il tatuaggio come arte concettuale e il tatuaggio come estremizzazione delle arti decorative funziona meglio nel contemporaneo e può aspirare a ottenere il diritto di cittadinanza in un consesso dove non è semplice entrare?
L’un caso e l’altro direi: nel primo il tatuaggio è un mezzo, uno strumento, un linguaggio per dire determinate cose che, paradossalmente, si potrebbero dire anche in altri modi. Nel secondo il tatuaggio è un fine, dunque gli si riconoscono quei necessari “gradi di artisticità” (e anche di pertinenza e innovazione). Nè è da escludere che questi due modi si incontrino e nel cosiddetto “tatuaggio come arte” si ritrovino entrambi.
santiago sierra, linea de 250 cm tatuada sobre 6 personas remuneradas, 1999
Per esempio ciò è accaduto nel progetto con cui Wim Delvoye a partire dal 1997 ha tatuato una ventina di maiali.
Sedati, depilati, decorati e fatti scorrazzare liberamente come opera d’arte vivente. Solo quando muoiono di vecchiaia vengono scuoiati e le loro pelli messe in mostra, addirittura qualche esemplare particolarmente “bello” viene imbalsamato con un processo di tassidermia e quindi trasformato in scultura.
Nonostante la cura e l’affetto con cui sono seguiti e coccolati nell’Art Farm di Pechino -in Cina le leggi sugli animali sono più permissive rispetto al Belgio dove è stato vietato a Delvoye di proseguire nel lavoro- diversi animalisti sono insorti in proteste, ignorando che questi suini, testimonial involontari della Disney o di Louis Vuitton, non hanno corso il rischio di essere trasformati in prosciutti e salsicce.
Polemiche a parte, sarebbe riduttivo leggere il lavoro dell’irriverente Delvoye come provocazione o sensazionalismo. C’è sempre un elemento politico che l’artista fiammingo vuole sottintendere. Rispondendo a una lettera di protesta di una indignata signora, fu acuto il critico Giacinto Di Pietrantonio a osservare che “dalla scienza sappiamo che il maiale, al di là della forma, è biologicamente l’animale più vicino all’uomo, non la scimmia, difatti molte sue parti vengono impiegate in medicina, medicinali, trapianti.
A Delvoye questo interessa e, quando ha pensato di tatuarli, li ha scelti perché la loro pelle rosea è anch’essa molto vicina a quella umana, il famoso incarnato della pittura, per cui ben si presta a essere tatuata; poi il maiale è considerato un animale sporco, volgare, insomma poco presentabile e a Delvoye interessa la relazione tra questa definizione dell’animale plebeo e quella delle persone che si tatuano, non tanto oggi che è diventata una moda diffusa, ma ieri che era segno di persone marginali: hells angels, carcerati, marinai… una forma che gli permette di recuperare lo scarto dell’arte. Ecco spiegato uno dei perché dell’arte moderna e contemporanea, che è tale in quanto ci ha insegnato che tutto può essere riportato all’arte e che quindi, cara signora, dell’arte come del maiale non si butta via niente”.
plinio martelli, souvenir d'afrique 1974 2002
Sarebbe ozioso soffermarsi sulle polemiche, sottolineando come nei confronti degli animali si sia generalmente più empatici che verso gli umani, lo dimostrano quegli artisti che hanno tatuato il corpo di altri (umani) non così aspramente discussi come Delvoye, nonostante ad esempio il lavoro di Santiago Sierra si sia mostrato ben più violento e impietoso.
Madrileno, avendo vissuto fin dagli anni Novanta a Città del Messico, Sierra si è trovato a riflettere sulle drammatiche contraddizioni di una delle più popolose metropoli al mondo, dove molte persone restano sotto la soglia della povertà e delinquono, chi spacciando droga chi prostituendosi.
L’artista ha trovato gente disposta a vendere una porzione di corpo in cambio dell’equivalente in pesos del salario di una giornata: da lì sono nate le performance durante le quali Sierra ha tatuato una linea di diversi centimetri sulla schiena di persone regolarmente retribuite. Se il denaro regola i rapporti nel mondo, a cominciare dal lavoro, Sierra paga senza ottenere alcun prodotto commerciale né un servizio utile, sottraendosi quindi alla logica del plusvalore per cui anche il nostro corpo è merce, oggetto di scambio.
pierre et gilles, le rebelle du dieu neon
Quando non è il denaro è il potere a far da leva economica, pure se usato con ironia e sarcasmo come inscenò Piero Golia, che nel 2001 convinse una ragazza a lasciarsi tatuare il suo ritratto (non esattamente un Brad Pitt!) insieme alla scritta “Piero My Idol” sulla schiena, affidandone la realizzazione a un bravo tatuatore. L’opera non è più disponibile, magari la donna avrà trovato il modo di farla cancellare, o magari il tutto è frutto di un’invenzione perché spesso l’arte contemporanea raccontata (e mitizzata) è più affascinante di quando ci compare davanti agli occhi.
Ben più sottile, anche visivamente parlando, i tatuaggi che Douglas Gordon ha voluto su di sé, le scritte Trust Me e Forever sulle braccia, oppure la parola Guilty sulla spalla sinistra dello scrittore Oscar Van Der Boogaard, che si legge correttamente solo allo specchio, da cui il titolo dell’opera Tattoo (for reflection).
Scozzese di Glasgow come il suo quasi coetaneo Ross Sinclair, tra gli esponenti di punta di quella generazione che rinnovò profondamente l’arte britannica negli anni Novanta, che ha portato avanti il progetto Real Life proprio a partire dal tatuaggio della scritta sulla propria schiena, cui solo di recente si sono aggiunte altre due parole, Is Dead.
In entrambi i casi va sottolineato il carattere autobiografico di questi lavori, l’esigenza di portarsi addosso il messaggio destinato ad altri, certo per renderlo più credibile e autentico.
Autobiografia, mentre altrove è necessario che il corpo veicoli un grido, un’urgenza, una sofferenza che si manifesta soprattutto nell’arte delle donne. Oggi che il tatuaggio è definitivamente parte della nostra cultura l’effetto è certamente cambiato, ma negli anni Settanta era limitato a un certo tipo di personaggi bordeline e comunque non femminili.
mike giant, satan's slave, 2009
Nel 1971 la performer austriaca Valie Export decise di tatuarsi come un atto di trasgressione: all’inizio doveva essere un serpente tra la schiena e il collo, poi optò per un meno invasivo reggicalze sulla coscia sinistra a connotare quella stessa forte sessualità presente nei suoi lavori più famosi (Genitalpanik, 1968).
"Il simbolo di chi porta calze e altri accessori erotici -dichiarò- ed è anche il simbolo di una definizione di donna ora obsoleta, perché il reggicalze ha a che fare con un tipo di calze collegate a una certa tipologia di donna. Ora, però, questo momento è passato, abbiamo una nostra identità. Perciò è come portarsi in giro un pezzo d’antiquariato”.
I tempi sono cambiati, non la necessità di un certo tipo di messaggi, così l’americana Mary Coble, nata nel 1978 quando Valie Export era già un artista di fama, esponente della comunità LGBT internazionale, è sintomatica di come l’estetica (bella calligrafia, eccessi decorativi) si sia sovrapposta all’etica (la sofferenza del sangue, le ferite sul corpo) senza mai negarla, in performance come Blood Script testimoniato da fotografie, video e disegni.
Fin qui, dunque, si è riflettuto sul tatuaggio come mezzo. Se invece affrontiamo la questione già accennata del tatuaggio come decorazione, le sfumature risultano persino più ampie, a cominciare dalla non facile risposta alla semplice domanda: alcuni tatuatori, i migliori, gli innovatori, considerati alla stregua di maestri da chi davvero se ne intende, possono essere considerati paritari agli artisti? Il loro lavoro, così fine, stratificato, delineato, sapiente è assimilabile a un’opera d’arte?
maschera del borneo ross sinclair, the real life portraits, duff house5, 2000, collezione enea righi
Nel mondo di esperti e conoscitori del tatuaggio non è certo difficile riconoscere quei personaggi di culto diventati oggetti di studio, pubblicati in volumi e riviste, esposti nelle mostre.
Anche tra i profani (per quanto appassionati come me) è nota l’importanza di una figura come Horiyoshi III, ultrasettantenne che tatua da quando di anni ne aveva dodici, in Giappone considerato fondamentale per la diffusione di un linguaggio osteggiato da pregiudizi culturali, fino all’apertura del Tattoo Museo a Yokohama.
Oppure Davide Andreoli aka Italian Rooster, che opera a Rho ed è reputato uno degli studi più importanti d’Italia, di recente trasferisce le sue creazioni dalla pelle umana alla tela del quadro. Ciò indica il desiderio, o forse la sicurezza, di misurarsi in un contesto altro, in questo caso quello della pittura che, almeno in teoria, sembrerebbe appartenere per consuetudine al novero delle “arti alte”.
Con l’olio al posto dell’inchiostro, comunque, Italian Rooster rende riconoscibile quello stile che lo ha reso un maestro, sottolineando ancora una volta la centralità, nell’arte, della famosa teoria del contesto che, ampliatasi nel contemporaneo, permette numerosi slittamenti e imprevisti cambi di scena. Ad esempio nel coltissima e stimolante Biennale di Venezia del 2013, il direttore Massimiliano Giorni inserì nella sua mostra Il palazzo enciclopedico diversi disegni anonimi sui “panos” (fazzoletti di tela) realizzati nelle carceri messicane.
Opere d’arte? Niente affatto. Curiosità antropologiche? Piuttosto. Eppure collocati negli ampi padiglioni dell’Arsenale immediatamente assumevano un altro ruolo. Visto che siamo in Messico, ecco il Dr. Lakra, artista e tatuatore professionista, cui piace combinare elementi di diverse tradizioni iconografiche -ad esempio azteche e maori- intervenendo con la propria stupefacente calligrafia su manifesti, riviste, immagini vintage soprattutto degli anni Cinquanta, “tatuando” con una penna a sfera il corpo di pin up. Le sue invenzioni, però, dicono di un universo popolato di quel immaginario messicano da rito pagano, surreale e grottesco.
manu brabo, member of mara salvatrucha
Casi del genere, a proposito di slittamenti, se ne possono trovare diversi. Ad esempio lo scrittore Nicolai Lilin, autore di nove romanzi a partire da Educazione siberiana uscito nel 2009, disegna tatuaggi che sottolineano le origini della sua cultura, con ampio uso di simbologie pregne di significati fortemente identitari e comunitari.
Più volte Lilin ha dichiarato la propria contrarietà rispetto alla “moda” del tatuaggio giovanile che non si pone poi troppo il senso di una scelta, invitando chi offre il corpo a un’immagine di essere sicuro di ciò che l’immagine stessa significa e rappresenta. Marchio ribelle si intitola l’ultima sua prova letteraria, dove appunto ribadisce la non casualità di certi segni con i quali sarebbe meglio non giocare.
Nato nel 1971, trasferitosi a San Francisco, Mike Giant per dieci anni -dal 1997 al 2007- è stato riconosciuto come uno dei più originali tatuatori californiani. Poi l’ingresso nel mondo dell’arte, complice il clima favorevole di gallerie e spazi alternativi o l’attività di riviste quali “Juxtapoz”, vera e propria bibbia di certo underground.
felice beato, facchino giapponese, collezione giglioli muciv, roma
I suoi segni trovano ispirazione nei giornali femminili degli anni Settanta, nei fumetti di Charles Burns, nelle copertine di album heavy metal e da quelle immagini archetipiche dell’iconografia religiosa.
“E’ importante notare -racconta- che io vedo tutte le religioni come percorsi diversi che portano alla stessa consapevolezza; per questo mescolo icone provenienti da tradizioni diverse per raccontare la storia senza tempo delle nostre gioie e sofferenze universali”. A margine Giant sostiene di essersi “liberato” dal mondo dei tatuaggi per non essere costretto a discutere con i clienti su cose che non avrebbe voluto fare. Con l’arte, affiancata alla meditazione, si sente ora più libero.
La questione del depistaggio, del cambiamento di senso, può riguardare non solo l’artista ma anche l’opera stessa, in una confusione semantica che almeno a prima vista provoca quell’effetto di spiazzamento di cui solo in un secondo tempo andiamo ad accorgerci.
gavin watson, paul, skinhead con tatuato fuck off in bocca, high wycombe, uk, 1981
E’ questo il modus operandi di Fabio Viale, scultore classico che lavora con il marmo -ecco che torna la questione dell’uomo artigiano sollevata da Richard Sennett, per dirsi artisti bisogna essere molto bravi nell’esecuzione- e le sue bianche sculture monumentali, che in passato ironizzavano riproducendo oggetti comuni al fine di restituire nobiltà al più banale dei ready made, oggi si interrogano sullo stereotipo di quella scultura arcaica, fuori dal tempo, ideale sintesi di bellezza e proporzione nella rappresentazione di figure umane la cui unica differenza sta proprio nell’essere tatuate come un ragazzo del terzo millennio. Ulteriore prova di ciò che accade quando la testa e la mano si muovono nella stessa direzione.
Era piemontese anche Plinio Martelli, scomparso nel settembre 2016, attivo fin dagli anni Settanta con il cinema militante e autore di una successiva virata che lo ha indotto a indagare sul corpo passando dalla sessualità talora esplicita agli studi delle sottoculture.
Maniacale ricercatore nei marchés aux puces, Plinio compiva autentiche operazioni di prelievo, per non dire di appropriazionismo in anticipo sulla moda degli anni Ottanta, ingrandendo vecchie fotografie in bianco e nero di carcerati, freaks, individui borderline tutti rigorosamente tatuati e andandole ad arricchire con il proprio segno decorativo e pittorico in un’operazione di ricalco non lontana, almeno concettualmente, da quelle di Alighiero Boetti: inutile inventare immagini nuove quando ce ne sono in giro così tante (lo sosteneva, peraltro, anche Andy Warhol).
Ironia. Ci vuole tanta ironia. Non bisogna prendersi troppo sul serio, evitare almeno nell’arte tutta quella prosopopea da rito iniziatico perché in fondo il tatuaggio è un’abitudine contemporanea ormai parte integrante del nostro vivere, come il design, la moda, espressione di quella che Gillo Dorfles avrebbe definito una tra le tante “oscillazioni del gusto”.
Tra queste c’è anche il kitsch che invade il corpo e gli oggetti (si vedano le opere di Pierre et Gilles e di Kim Joon) da cui chi decide di tatuarsi (me compreso) non è affatto esente.
“La scimmia nuda balla, Occidentali’s Karma”, ricordiamo il tormentone della canzone con cui Francesco Gabbani vinse nel 2017 il Festival di Sanremo. L’artista milanese Simone Fugazzotto, che si definisce orgogliosamente “pittore di scimmie” ne ha ritratta una tatuata che ci guarda insistentemente e con fare interrogativo, proponendosi come un nostro alter ego nei modi e nelle mode. Insomma, dopo la storia dei maiali di Wim Delvoye siamo ancora qua, a discutere di uomini e animali.
capo maori con il volto tatuato, seconda meta xix sec LUCA BEATRICE anonimo, ciro bonacoro, giovanni marigo, angelo quaglini, giuseppe avondo, museo cesare lombroso, torino