Luigi Ficacci, storico dell’arte, per Dagospia
Immaginiamo che un innocente, spinto da qualche interesse di affari, finisca deportato lontano dal Mediterraneo, e, nel bel mezzo dell’estate, trovandosi nella capitale di qualche sua convenienza materiale, finisca dentro al British Museum, dovendosi orientare tra quell’oceano di opere d’arte.
Come fa? Intanto converrebbe riparare il malcapitato a qualche appiglio. Per esempio conducendolo al numero di inventario 1856,0623.26, dove troverebbe una tavoletta in avorio che, nelle minime dimensioni di 198 x 88 millimetri, racconta sia la storia di Lazzaro secondo il Vangelo di Giovanni che il significato teologico della sua resurrezione. Una delle chiavi più complesse della cultura religiosa cristiana è costruita in una sintesi visiva che la fa risultare lampante.
La composizione ordinata -e perciò chiara- sovrappone Gerusalemme alla figura del Cristo, che ne è uscito per raggiungere Betania, dove sta il corpo fasciato di Lazzaro, entro un sepolcro dalla monumentale architettura orientaleggiante. Poi ci sono Pietro, che rappresenta gli Apostoli, e Marta con Maria, sorelle del morto.
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E’ per loro due che il Cristo compie il miracolo, col gesto imperativo che domina il centro della scena. Quel gesto regale, con cui ordina a Lazzaro di risorgere, dimostra la sua divinità e la padronanza della verità e della vita.
Col bastone pastorale impugnato come lo scettro della propria sovranità, conquista così gli astanti alla fede. Quando il nostro immaginario deportato al British Museum riconoscesse nella sacrale essenzialità di questo avorio, nella forza dell’evidenza visiva e nell’astrazione verso una dimensione di immobile eternità, i caratteri della più elevata civiltà bizantina, approderebbe a Grado. Proprio dove l’Adriatico si conclude in una laguna e dove turisti austriaci, tedeschi e nord italiani stanno facendo il tutto esaurito negli stabilimenti balneari.
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Infatti, è molto probabile che, nel VII secolo, quella tavoletta venisse eseguita e inserita in una cattedra vescovile eburnea, dedicata all’apostolo Pietro, acquistata o ottenuta dalla diocesi di Grado, per risarcire la perdita del proprio tesoro. Questo era stato riportato con la forza ad Aquileia nel 662 da un duca Lupo, capo di quei Longobardi che un secolo prima avevano conquistato il Friuli e ora si sforzavano di ripristinare nel proprio dominio la tradizionale vita cristiana, in antagonismo però con le aree che, al tempo della loro invasione, erano riparate sotto l’influenza bizantina. Data la qualità eccelsa di questo trono, ormai deducibile solo da alcune tavolette superstiti, sparse in vari musei del mondo, si comprende come esso dovesse dipendere da una committenza di altissimo livello.
Probabilmente quella di un imperatore bizantino. Forse il grande Eraclio I, forse il figlio, Eraclio II, sovrano dal regno molto breve, che non durò oltre l’anno 641, quando assunse il potere assoluto. Venne infatti deposto pochi mesi dopo la nomina, per l’accusa di avere ucciso il fratellastro, Costantino III, col quale, per quelle complesse soluzioni politico dinastiche tipiche della corte di Bisanzio, alla morte del padre era stato destinato a condividere la dignità imperiale.
Assieme alla madre, accusata di complicità, fu mutilato, imprigionato e sostituito. Perciò è probabile che, in una vicenda così travagliata, il dono di un oggetto prezioso a un patriarcato importante come Alessandria d’Egitto, che varie fonti antiche indicano come sede di provenienza del trono, fosse un beneficio strategico per la propria legittimazione.
Qualche altra convenienza di potere o commerciale dovette poi provocare il suo arrivo a Grado, questa volta con la finalità di rafforzarne l’autorità patriarcale dopo la devastazione longobarda e contro il predominio di Aquileia, in un’epoca in cui Venezia non era ancora stata fondata. Oppure, tutt’altra storia, secondo altre ipotesi di studio. Il trono è di quattro secoli più tardo, eseguito a Venezia e testimonianza della capacità di replicare la civiltà della capitale dell’Impero d’Oriente da parte di qualche manifattura della penisola.
Non credo sia l’ipotesi giusta, ma comunque divergenze così radicali sono frequenti in un ambito difficoltoso come l’evoluzione temporale della civiltà bizantina, apparentemente immobile rispetto ai modi del medioevo del continente europeo. Per la nostra immaginaria vittima, smarrita nel British Museum, non sarà necessario immergersi in queste problematiche. Basterà che percepisca che quella tavoletta è indizio della più elevata civiltà di corte orientale, che provenga da una cattedra dall’importanza capitale, talmente preziosa da costituire qualcosa come un tesoro inestimabile e una reliquia.
Un modello, da cui discendono imitazioni successive, diramate in una geografia dell’influenza bizantina, fatta di vicende politiche, di rapporti, di movimenti di uomini e di merci. Un Mediterraneo che da centro d’Europa sta gradualmente passando a suo margine meridionale. Allora il nostro visitatore ideale potrà riparare a Grado, dove non troverà più la Cattedra di San Pietro, ormai smembrata da secoli, ma una urbanistica di capolavori architettonici paleocristiani che racconta una storia della città che altrimenti potrebbe sfuggire, sotto la schiacciante fisionomia moderna dell’attività balneare.
Vi troverà uno tra i più affascinanti organismi sacri d’Italia, costruito per riparare il Patriarcato di Aquileia, irrinunciabile per la cristianità, dall’invasione degli Unni, attorno al 452. Città nominata Nova Aquileia, edificata come sua sede alternativa, difesa dalla laguna, da apposite fortificazioni e soprattutto dalla protezione di Bisanzio.
Una tradizione di vescovi, che furono veri e propri sovrani della città, seppero farla sorgere, prosperare e difenderla da successivi invasori, come i Longobardi. Finché, l’emergere di Venezia come centro egemonico, a partire dal XII secolo, ne segnò la marginalizzazione, fino all’accorpamento dei due patriarcati.
Nella Grado odierna, la cattedrale di Sant’Eufemia, ingrandita nelle forme attuali nel V secolo e conclusa nel 579, con la nobiltà della sua forma basilicale, a tre navate spartite da una nobilissima successione di colonne di marmi diversi, ancora esprime questo passato di importantissimo centro patriarcale, votato al culto dell’apostolo Marco.
E’ pavimentata da un mosaico che la copre per 700mq., come un tappeto di ornati geometrici e iscrizioni che, nella loro emancipazione rispetto alla figurazione tardo antica, rivelano in pieno l’influenza bizantina.
Resti di mosaici pavimentali anche nell’annesso battistero a pianta esagonale e nell’altra bellissima chiesa di S. Maria delle Grazie, entrambi risalenti alla metà del V secolo. Assieme compongono il Campo dei Patriarchi, un organismo urbano che al visitatore attento rivelerà una storia antichissima, coesistente, nella configurazione attuale, col fascino austro ungarico degli esordi di una vita turistico balneare, almeno dagli anni settanta del XIX.
Ma anche con quella condizione a sé che è la laguna dell’alto Adriatico, le sue culture di adattamento della vita ai suoi caratteri naturali, la sua lingua, le sue tradizioni. Insomma, a quel punto Grado risulterà un luogo imperdibile: qualcosa di molto diverso dalla banale immagine corrente del suo stereotipo pubblicitario.