Andrea Cuomo per ''il Giornale''
Franco Pepe è probabilmente il migliore pizzaiolo del mondo. Il suo locale, Pepe in Grani, a Caiazzo, è meta di pellegrini del gusto che per nessun'altra ragione capiterebbero mai in questo paesino del Casertano in cui, dice lui stesso, «il lunedì sera quando siamo chiusi non incontri nessuno da salutare».
Eppure se cerchi Caiazzo nella guida Michelin presentata mercoledì a Piacenza non la trovi. Guardi bene, controlli l'ordine alfabetico, poi ti arrendi. Non solo Pepe non ha una stella come secondo noi e secondo molti meriterebbe visto che a Bangkok e a Singapore ci sono baracchini di street food che possono esibire la mitica targa rossa di latta, ma per la Michelin proprio non esiste. Roba da crisi di identità.
Ma lei esiste, Pepe?
«Mi ascolti. La Michelin non guarda alle pizzerie, non le prende in considerazione. Rispetto questa scelta ma mi chiedo: che cos'è la pizza per la Michelin? Faccio fatica a capirlo, sono stato a Hong Kong in posti con la stella in cui non volevo rimanere. E poi, segnalano solo pizzerie napoletane, a parte Simone (Padoan dei Tigli di San Bonifacio, ndr). Non ha senso, oggi esiste la pizza italiana, non più solo quella napoletana».
E quindi?
«E quindi rispetto e sto a guardare. Noi siamo qui, sanno dove trovarci. Non mi aspetto la stella, io non mi voglio paragonare a uno chef stellato, se un giorno la Michelin mi riconosce anche con un altro simbolo io sono lusingato».
franco pepe con i suoi ragazzi
Ma un altro simbolo non sarebbe solo una presa in giro?
«Ma ognuno poi decide come fare il suo prodotto, la Michelin fa il suo e io il mio».
E il suo qual è?
«Dal 2012 al 2017 ho fatto evolvere il concetto del mio prodotto e della mia location in funzione dell'ascolto del cliente. Io nella mia pizzeria ho tre sommelier, ho sale degustazione, ho posti letto in due stanze molto curate che ho voluto per lanciare un messaggio: la pizza è slow. Non è più solo un disco di pasta condito in qualche modo, che mangi e scappi via. Oggi c'è una cucina che lavora a supporto della pizzeria, un team, le pizzerie non si chiamano più Da Mario, Da Giovanni».
Alcuni questa cosa la chiamano pizza gourmet.
«Ma non io. Io preferisco parlare di evoluzione della pizza. Che deve restare un prodotto democratico».
Democratico o pauperista?
«Democratico. Tu puoi entrare da me e mangiare una pizza a libretto a 2 euro. Nelle sale tradizionali il coperto è in media di 15-16 euro. Poi c'è una sala degustazione con tre tavoli da otto in cui la pizza è servita a spicchi secondo un percorso di degustazione con sommelier a proporre vini e bollicine. Un belvedere con pochi posti dove garantisco la privacy. E da due anni la sala Authentica, la pizzeria più piccola al mondo, dove io cucino a contatto con il pubblico: otto persone che mi guardano negli occhi, che guardano le mie mani. E che pagano anche cento euro a persona».
In questa sala lei ha creato Authentica stellata.
«Sì, una rassegna che da novembre a giugno ospiterà trenta chef stellati e no, che io voglio ringraziare per quello che mi hanno insegnato».
Lei affronta anche gli aspetti nutrizionali della pizza.
«Mi dicevano: la pizza si può mangiare solo una volta a settimana. Ma perché? Così, essendo anche ambasciatore della Dieta mediterranea, con l'aiuto di una nutrizionista ho creato un menu funzionale di pizze, con carboidrati ridotti e il giusto apporto di proteine, lipidi e di fibre, grazie all'accostamento con le erbe spontanee. Propongo un nuovo piatto con un dressing destinato ad accompagnare il cornicione, così evitiamo anche di buttare il 10 per cento del nostro lavoro».
La critica la esalta. Che rapporto ha con essa?
«Nel locale, appena entri, vedi un cartello in cui spiego al mio cliente che non leggerò mai una recensione scritta su qualsiasi blog. Chi vuole dirmi delle cose, me le dica in faccia prima di pagare il conto».
Questo per i giudizi dei clienti. Ma per la critica-critica?
«Dipende chi me la fa. Ci sono 5 che valgono tanto e 10 che arrivano da chi ti sopravvaluta. So bene che come si può creare un personaggio lo si può distruggere. Mio padre faceva le stesse file che faccio io oggi ma non c'era nessuno a raccontarle. Comunque a tutti dico: voi non mi potete giudicare se non venite da me e non capite chi è Franco Pepe».
Sulla pizza si è detto tutto o c'è ancora da dire?
«Io e altri abbiamo fatto un miracolo ad alzare l'asticella. Ma ora al mondo pizza si può chiedere di più se ci sarà un giorno una scuola istituzionale che formi i pizzaioli non solo da un punto di vista degli impasti ma anche da un punto di vista scientifico. Evitiamo che i pizzaioli li crei la comunicazione, facciamoli creare dalle scuole».
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