1 - LA QUOTIDIANITÀ DELL'AIDS
Simona Buscaglia per “la Stampa”
«Nel 2020, tra i nuovi infetti da Hiv, 100 casi avevano meno di 25 anni. Se anche i giovani si ammalano vuol dire che serve più informazione, soprattutto sui test». A dirlo senza mezzi termini è la professoressa Antonella Castagna, primario dell'Unità di Malattie Infettive dell'Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. Secondo l'ultimo monitoraggio ufficiale del Centro Operativo Aids, nel 2020 sono state segnalate 1.303 nuove diagnosi di infezione da Hiv, nel 79,9% dei casi maschi, con l'incidenza più alta tra i 25-29enni. I casi sono in diminuzione dal 2012.
Il report però mette in guardia: le nuove infezioni potrebbero essere sottostimate a causa della pandemia da Covid-19, che potrebbe aver ridotto il numero totale dei test effettuati. Anche se non esiste una cura definitiva, ricevere oggi una diagnosi di Hiv non è più una condanna a morte: «Rispetto agli Anni 80 ci sono stati progressi enormi nel campo della prevenzione e anche nel trattamento - spiega la dottoressa Castagna - chi inizia la terapia antiretrovirale può avere un'aspettativa di vita simile a quella della popolazione generale. Siamo riusciti a trasformarlo in un'infezione cronica con cui si può convivere».
I farmaci oggi a disposizione permettono un duplice risultato: «In primis sopprimere la replicazione da Hiv, cioè uscire dall'immunodeficienza, che portava all'Aids e alla morte: grazie alle terapie le persone che vivono con l'Hiv non trasmettono più per via sessuale l'infezione, e questo ha permesso loro di stringere di nuovo delle relazioni sentimentali».
Nel 2020, la maggior parte delle nuove diagnosi di infezione da Hiv era attribuibile a rapporti sessuali non protetti da preservativo (88,1% di tutte le segnalazioni).
Diversamente dagli anni precedenti, in cui erano preponderanti le diagnosi associate a una trasmissione tra eterosessuali, nel 2020 sono maggiori nei maschi che fanno sesso con maschi (45,7%) rispetto agli etero (42,4%).
La diagnosi precoce rimane fondamentale: dal 2015 è in aumento la quota di persone a cui viene diagnosticata tardivamente l'infezione: «Molti scoprono di avere il virus quando è riuscito già ad erodere il sistema immunitario. Rendersi conto presto di averlo contratto vuol dire avere un recupero più brillante. Inoltre, più persone in terapia significano meno trasmissioni. I test di quarta generazione possono dare un risultato in poco tempo, anche dopo 30 giorni dall'infezione».
Uno dei più grossi traguardi degli ultimi anni nella prevenzione riguarda la profilassi pre-esposizione, che consiste nella somministrazione di antiretrovirali prescritta dall'infettivologo alle persone negative ma ad alto rischio di contrarre il virus: «Questo ha dato buoni risultati nella riduzione delle infezioni - aggiunge Castagna -. In Italia però questa profilassi è a pagamento, a differenza di altri Paesi, come la Francia, in cui è gratuita. Aifa (l'Agenzia italiana del farmaco, ndr.) ha approvato da poco le somministrazioni di farmaci long-acting, che consistono in un'iniezione intramuscolare ogni due mesi, anche per le persone infette. Sono già disponibili in Italia».
Non è un dettaglio di poco conto per la qualità della vita di chi deve convivere con la malattia: per molte persone con l'Hiv questa terapia all'avanguardia significa non ricordarsi ogni giorno di avere il virus, come con la compressa quotidiana della terapia orale. La ricerca non si è fermata durante la pandemia da Covid-19.
Il New England Journal of Medicine ha pubblicato i risultati sull'efficacia e sicurezza di una nuova terapia nel trattamento di quei pazienti che hanno sviluppato una resistenza agli altri farmaci: «Molti Paesi stanno portando avanti programmi per la cura definitiva dall'Hiv - conclude Castagna -. Quello che differenzia questo da altri virus è la sua capacità di integrarsi nel genoma della cellula umana: lì non si riesce a stanarlo. Ora bisogna agire su due fronti: cercare nei prossimi anni di eliminare l'Hiv nella cellula e tenere alta l'attenzione verso i test. Si deve sconfiggere l'idea che l'Hiv riguardi solo le persone che vivono ai margini della società perché non è assolutamente così: chi ha avuto un rapporto sessuale non protetto, di qualunque estrazione sociale sia, è a rischio».-
2 - ANDREA GORI "NON ASPETTATEVI IL VACCINO MA IL VIRUS ORA SI CONTROLLA"
Paolo Colonnello per “la Stampa”
Tra tutti i flagelli che funestano questi ultimi anni, quello dell'Aids sembra scomparso dai radar delle nostre angosce. Eppure ci si ammala ancora, anche se si sopravvive di più e meglio. Però si tratta pur sempre di un virus, e ormai sappiamo bene quanto pericolosi possano essere questi organismi invisibili. Quello dell'Hiv «non è affatto scomparso», come spiega efficacemente il professor Andrea Gori, infettivologo, primario al Policlinico di Milano e presidente di Anlaids, l'associazione che si batte contro l'Aids.
Professor Gori, l'Aids uccide ancora?
«Uccide ormai fortunatamente poco, ma uccide. Dipende se parliamo di Paesi industrializzati o in via di sviluppo. Al mondo ci sono 10 milioni di persone che non hanno accesso ai farmaci il che significa che l'Aids fa ancora un milione di morti all'anno. Da anni. In particolare nell'Africa subsahariana, dove l'incidenza dell'infezione è altissima».
E in Italia?
«In Italia siamo messi relativamente bene: il nostro Paese ha un sistema di rete tale nei reparti di malattie infettive che consente di avere successi di terapia tra i più alti al mondo. Soprattutto se ci confrontiamo con i dati americani, dove con un sistema organizzato attraverso le assicurazioni, molte persone accedono con fatica alle cure».
La differenza, insomma, è sempre tra ricchi e poveri?
«Purtroppo è così, direi più tra sistemi: il nostro è certamente uno dei più avanzati e democratici».
Ma chi si infetta oggi di Hiv che speranze di sopravvivenza ha?
«Abbastanza alte. Stiamo attendendo farmaci nuovissimi che dovrebbero spostare l'asticella ancora più in là. Per capire, basti dire che attualmente disponiamo di farmaci che possono portare il livello di controllo dell'infezione a un successo pari al 95-98 per cento: dati quasi incredibili se pensiamo come era iniziata».
Cosa significa?
«Che ormai siamo in grado di controllare perfettamente la replicazione del virus e la malattia».
Quindi possiamo cantare vittoria?
«Per niente. Il problema è proprio che non riusciamo a eradicare il virus, anzi ne siamo ancora abbastanza lontani»
Ci sarà mai un vaccino come per il Covid?
«Probabilmente no, rispetto al Coronavirus, che è molto stabile, l'Hiv si replica milioni di volte in più, con milioni di varianti. Trovare un vaccino è un'impresa disperata».
E quindi?
«Quindi bisogna ancora stare molto attenti. Chi si infetta, se smette di prendere i farmaci anche solo per una settimana, vede gli effetti del virus ripartire e sono guai».
Si finisce per essere condizionati tutta la vita?
«Sì, bisogna sapere che ci si infetta per tutta la vita: assumere una terapia per sempre, sottoporsi a controlli continui, gestire gli effetti collaterali dei farmaci. Si diventa un po' meno liberi. La differenza con prima, però, è che si può condurre una vita quasi normale, che dopo un po' la trasmissibilità si azzera e che i figli di sieropositive nascono sani. Questo è un grandissimo passo avanti. Il punto è che non sappiamo ancora quali saranno gli effetti collaterali a lungo termine di questi farmaci. Per ora abbiamo dati sui 20-25 anni. Tra 20 anni ne sapremo di più».
Meglio non abbassare la guardia?
«Guai. Spesso i giovani dicono: ma sì, tanto ormai non si muore più, tanto si cura. Alcuni però arrivano da noi e non sanno nemmeno più cos' è l'Hiv. Il che testimonia il grado di ignoranza che circola su questa malattia. Invece convivere con l'Hiv genera problemi clinici e sociali».
Per esempio?
«Lo stigma, che è l'effetto collaterale peggiore dell'Aids. Una delle cose che facciamo come Anlaids è insegnare alle persone sieronegative come accettare i sieropositivi, avendo consapevolezza che ormai anche loro possono avere una vita assolutamente normale».
Cos' è lo stigma?
«E' la discriminazione, è quando su un malato di Aids o un sieropositivo ci si pongono o domande tipo: chissà chi è? Che comportamenti sessuali sfrenati avrà avuto?
Magari si droga».
Invece?
«Invece non c'è nulla di tutto ciò. Il virus si trasmette quando i rapporti non sono protetti indifferentemente tra omosessuali o eterosessuali. Certo, l'incidenza è un po' più alta nelle comunità gay, dove i rapporti sono più liberi, ma ormai è relativo anche lì: anche in questi ambienti ci sono matrimoni e relazioni stabili. Il problema vero è che si parla poco o niente di sessualità. Non se ne parla in famiglia, non se ne parla a scuola. I giovani crescono istruendosi sui siti porno in rete. Così assistiamo al fatto che la diffusione maggiore della malattia è nella fascia d'età tra i 18 e i 15 anni».
I giovani devono diventare più consapevoli?
«Sì, sono molto preparati sui temi ambientali, ma poco sulle tematiche che hanno a che fare con prevenzione e sessualità».
C'è uno spettacolo nato negli Usa che parla di tutto ciò e si replica solo una volta all'anno in Italia, «Rewind»: aiuta?
«Sì, l'arte è la migliore forma di comunicazione per questi messaggi. Lo abbiamo voluto portare in Italia per questo, anche se viene replicato una volta sola all'anno. E il sogno sarebbe che per il primo dicembre del prossimo anno, giornata in cui si celebra la lotta mondiale all'Aids, Milano, dove la malattia è comunque presente più che altrove, portasse questo spettacolo in un teatro del centro e si facesse città paladina della lotta all'Hiv». Capito, Beppe Sala?