1 - DIAGNOSI ERRATA E TEST IN RITARDO COSA NON HA FUNZIONATO A CODOGNO
Mauro Evangelisti per “il Messaggero”
Al pronto soccorso di Codogno, in provincia di Lodi, hanno dovuto visitare due volte M.M., 38 anni e paziente 1, prima di capire che era contagiato dal coronavirus. Nel frattempo, nei due differenti passaggi, è venuto a contatto con altri pazienti, con medici e infermieri. All'ospedale di Monselise, nel Padovano, hanno tenuto ricoverato per almeno dieci giorni Adriano Trevisan, prima vittima del coronavirus, e l'amico, entrambi di Vo' Euganeo, con una polmonite, senza intuire che era Covid-19.
CONTROLLI DI POLIZIA A CODOGNO
E probabilmente i medici hanno deciso di eseguire il test solo dopo che dalla Lombardia è arrivata la notizia del contagiato a Codogno. L'altro giorno il premier Giuseppe Conte ha accusato l'ospedale nel Lodigiano di avere gestito male le procedure e di non avere così contenuto gli effetti del contagio. A Padova, invece, la procura ha aperto un fascicolo sulla morte di Trevisan e sull'operato dei medici.
ACCUSE
Ma cosa non ha funzionato? L'assessore regionale del Lazio, Alessio D'Amato, la pensa come Conte: «Lo dico scevro da ogni elemento polemico, anche perché abbiamo dato tutta la disponibilità e la confermiamo, però sia nell'ospedale di Codogno sia nell'ospedale veneto qualche elemento di difficoltà c'è stato». Il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, invece si è infuriato con Conte, tanto che nel vertice di ieri c'è stato anche un momento di tensione in cui ha abbandonato la riunione.
DIFESA
Il sindaco di Codogno, Francesco Passerini, difende i medici dell'ospedale: «Hanno dovuto chiedere con insistenza all'uomo arrivato in pronto soccorso e alla moglie se avessero avuto contatti con la Cina. E se nella notte lei non avesse ricordato quella cena del marito con l'amico tornato dall'Oriente, i medici non avrebbero potuto svolgere il test, qualcuno li avrebbe accusati di commettere un abuso visto che sarebbero andati oltre ai protocolli indicati dal Ministero della Salute».
In sintesi: le linee di guida del Ministero, sulla base di quelle dell'Oms, prevedevano che si facessero i test solo sui pazienti con sintomi come tosse e febbre e solo se erano tornati dalla Cina o avessero avuto contatti con persone che erano state nelle zone a rischio. Qualcuno osserva però che a Codogno è stato sbagliato il metodo per ascoltare il paziente, a cui sono stati chiesti gli spostamenti in presenza di altre persone. C'è però un medico in quarantena di Castiglione d'Adda, cittadina a poche chilometri da Codogno, che racconta all'agenzia AdnKronos: «Siamo stati un po' delle cavie. Bisogna dare ai medici delle protezioni, spero che nelle altre regioni non si facciano gli stessi errori».
Ancora: «Nelle settimane precedenti c'erano state troppe polmoniti strane. Ma per il nuovo coronavirus tutto quello che dovevamo fare era chiedere agli assistiti se venivano dalla Cina, e in particolare dall'area a rischio». Forse c'è stata una sottovalutazione, forse non si è capito che in un mondo ormai sempre più piccolo un virus partito da una megalopoli cinese come Wuhan poteva arrivare anche dove meno ce lo si aspettava, nella quiete della Bassa Lodigiana. Però resta una domanda: perché non è stata scelta una linea più rigorosa dall'Italia imponendo i test per tutti i casi sospetti, anche quelli che non avevano legami con la Cina? Perché i paesi dell'Unione europea non hanno scelto questa linea comune prima che il contagio arrivasse?
Chi è in prima linea, come il primario di un grande pronto soccorso romano, scuote la testa: «I colleghi di Codogno hanno rispettato le procedure, magari è mancata una intuizione, ma con i dati e le prescrizioni a disposizione non potevano fare altrimenti. E fare il test a qualsiasi paziente con febbre e tosse non è praticabile. Solo nel mio pronto soccorso, in questa stagione di diffusione della normale influenza, arrivano ogni giorno almeno venti pazienti con quel tipo di sintomi».
2 - IL PAZIENTE INFETTO IN REPARTO E I RITARDI
Giusi Fasano e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera”
Il «paziente 1» entra in Pronto soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19 febbraio. Davanti ai dati che parlano di oltre la metà dei casi di contagio negli 11 Comuni intorno a Codogno, s' impone la domanda: qualcosa non ha funzionato in quell' ospedale? Il dubbio l' ha instillato anche il premier Giuseppe Conte facendo infuriare il governatore Attilio Fontana.
il contagiato di codogno - coronavirus
Trentasei ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov' era già stato il giorno prima) e il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20 febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti. Il motivo del non aver ipotizzato subito la possibilità del coronavirus: «Non è di ritorno dalla Cina».
In realtà, le linee guida del ministero della Salute del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato».
E una polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina.
Così l' assessore alla Sanità Giulio Gallera ieri può andare in Consiglio regionale a dire che l' ospedale di Codogno ha rispettato i protocolli. Vero.
PRONTO SOCCORSO OSPEDALE CODOGNO
Eppure Mattia per 36 ore resta in ospedale infetto senza che nessuno lo sappia e quindi senza nessuna misura di contenimento.
La conferma che è davvero contagiato dal virus arriva formalmente alle 21, sempre del 20. Ma per gli operatori di turno l' allerta rossa scatta che è quasi mezzanotte. È soltanto a quell' ora che all' interno dell' ospedale vengono informati tutti. E da quel momento in poi la situazione si fa complicata, per non dire caotica.
Dalle chat di familiari che hanno a che fare con medici, infermieri e pazienti ricoverati, si riescono a ricostruire i passaggi di una notte nella quale, per ore, si decide tutto e il contrario di tutto. È un frenetico consultarsi fra medici, infermieri, direzione sanitaria, Regione, ministero della Salute.
Il «paziente 1» viene spostato in Rianimazione e contagia i due anestesisti che si occupano di intubarlo, benché a questo punto siano protetti secondo il protocollo.
La prima ipotesi è chiudere il Pronto soccorso e l' ospedale tenendo dentro chi c' è in quel momento. Poi viene presa in considerazione l' idea di trasferire i pazienti in altri ospedali. Medici e infermieri del turno di notte tornano a casa convinti di cominciare un autoisolamento.
E invece no: vengono richiamati più tardi, quando ci sono anche gli altri colleghi del nuovo turno. Nel corso della giornata si decide chi di loro resta e chi torna a casa. Solo a mattina inoltrata il Pronto soccorso si svuota e le porte dell' ospedale, formalmente chiuso già da mezzanotte, vengono davvero rese inaccessibili: non si esce e non si entra più. Ad oggi ci sono lavoratori che aspettano ancora l' esito del tampone.
In uno dei messaggi scambiati via WhatsApp, un uomo dall' interno dell' ospedale (che non vuole essere identificato) racconta a un amico che «è sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un' emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare dagli errori».