Marco Cambiaghi per “la Repubblica – Salute”
Il dolore è un fenomeno fisiologico di vitale importanza, con un ruolo chiave nell’evoluzione, eppure la società sembra esserne ossessionata e si cerca di evitarlo a ogni costo. Le indagini realizzate negli ultimi decenni sul consumo dei farmaci, dove gli antidolorifici la fanno da padrone, sono una conferma di questa paura.
A ciò va aggiunto che, nell’ottica di una vita sempre più social, dove si mette in mostra il meglio della giornata, abbiamo trasformato il desiderio di essere felici in un imperativo. Il cartello giallo porta ormai la scritta nera: “Addio dolore, sì al piacere"... senza se e senza ma.
Ai moderni follower delle travisate dottrine di Epicuro le parole di Anna Lembke, professoressa di psichiatria e scienze comportamentali alla Scuola di Medicina della Stanford University, suoneranno quindi come un balzo nel passato o una pazzia. Sì perché, nel suo libro L’era della dopamina (Roi Edizioni, 2022), Lembke sostiene che dovremmo, volontariamente, non solo evitare le continue fonti di piacere ma, soprattutto, impegnarci per provare un po’ di dolore.
ANNA LEMBKE - L'era della dopamina
Un concetto di enorme impatto e controintuitivo che, anche in ambito medico si pone agli antipodi rispetto al trattamento delle malattie, della sofferenza e del disagio negli ultimi 150 anni. «Piacere e dolore – continua la Lembke – funzionano come i lati opposti di una bilancia. Troppo piacere troppo a lungo ed ecco che il cervello deve controbilanciare, facendo leva sul dolore. Con il tempo la bilancia si blocca sulla posizione del dolore e, quando accade, è necessaria una ricompensa più potente per provare nuovamente piacere. I sistemi motivazionali sono quindi dirottati a perseguire quella sostanza, la dopamina, non per sentirsi bene ma per smettere di sentirsi male».
Perché la parola chiave è dopamina? «Si tratta – spiega la professoressa, che dirige anche l’Addiction Medicine Dual Diagnosis Clinic – è una sostanza prodotta dal cervello essenziale per l’esperienza del piacere, delle ricompense e della motivazione. Tuttavia, è la stessa sostanza che non funziona più correttamente quando soffriamo di qualche forma di dipendenza». In un esperimento eseguito sui ratti si è misurato il rilascio di dopamina a seguito dell’ingestione di una certa sostanza o dello svolgimento di un certo comportamento.
Si è quindi osservato che il cioccolato aumenta del 50% i livelli basali, il sesso di circa il 100%, la nicotina del 150% e l’anfetamina del 1000% e noi non siamo poi così diversi. Ed è significativa la facilità con cui, oggi, otteniamo picchi ripetuti di dopamina, con un comodo accesso alla soddisfazione completa di ogni più recondito desiderio: cibo, sesso, shopping da divano, giochi... con lo smartphone che è diventata la versione moderna dell’ago ipodermico a rilascio di dopamina 24/7.
Il lato oscuro della dopamina, la dipendenza, è però solo una questione di quanta ne produciamo? «Dipendenza e piacere avvengono continuamente. Troppo piacere o un piacere troppo intenso – continua la Lembke – sono fonte di stress per il cervello, poiché questo cerca di adattarsi all’improvviso e in- gente aumento della sostanza. Si tratta del processo di neuroadattamento che porta allo stato di deficit della dopamina stessa e che definisce la dipendenza».
Insomma, quando questa svanisce, ecco che ci si sente peggio di prima. È allora che entra in gioco il dolore. Si assume una sostanza per sentirsi meglio o per provare meno dolore e a seguito di ripetute esposizioni la sostanza funziona sempre meno. Tuttavia, smettere è ancora più doloroso.
Il cervello controbilancia i livelli elevati e prolungati di rilascio della dopamina attraverso una limitazione della sua trasmissione, portando infine al suo deficit, una condizione paragonabile alla depressione. La professoressa Lembke innalza il problema a livello sociale: «Il bilanciamento fra piacere e dolore non è diverso rispetto a 50 anni fa. È l’ambiente a essere cambiato: questo è il problema.
Abbiamo circuiti motivazionali innati, adatti a vivere in un mondo di scarsità e pericoli, per nulla corrispondenti a quello in cui viviamo oggi, un mondo di sovrabbondanza in cui quasi ogni esperienza è “drogata”, dalla lettura al cibo, dal vestirsi al contatto sociale». Una visione tendenzialmente pessimista e per la quale la studiosa propone una soluzione antropologica.
«Dobbiamo riconoscere il disallineamento – continua – e lavorare per rifuggire continuamente il piacere e far posto al dolore, così da reimpostare l’equilibrio fisiologico dopaminergico. Ciò non significa diventare Amish, ma abbiamo bisogno di valutare bene la tecnologia e non accettare tutto come progresso».
È quindi possibile controllare, o modellare, il rilascio di dopamina, così da tenerla in equilibrio. Ma come? Basterebbe rendere più casuali determinate attività – fare allenamento senza musica e non concedersi un energy drink ma solo acqua – oppure fare una doccia fredda, o, ancora, impegnarsi in compiti cognitivi complessi, anche se possono portare a finali frustranti. Tutto e subito non sono il modo in cui il nostro cervello si è evoluto attraverso un cablaggio neurobiologico che ci ha tenuto in vita per millenni e in cui la dopamina ha avuto e ha un ruolo di enorme importanza.