Miriam Romano per “Libero quotidiano”
Non aspettavamo altro. Ma ora che pian piano potremmo riaffermare le vecchie abitudini, non siamo tutti pronti per uscire. «Saremo più timorosi», ci conferma Mauro Maldonato, docente in Psicologia clinica al dipartimento di neuroscienze della Federico II di Napoli.
D' altronde siamo rimasti reclusi per più di due mesi. Non eravamo abituati a niente di simile «Non è un' esperienza inedita nel panorama delle regolarità psichiche. Pensiamo a tutti quelli che hanno subito delle restrizioni delle libertà, come chi è stato in carcere, o chi è stato privato per un lasso di tempo delle proprie abitudini, di tutte quelle condotte che consideriamo ovvie e scontate».
Cos' è successo alla nostra psiche?
«La nostra mente ha subito un sisma. Tutte le nostre condotte ordinarie sono state messe in discussione. E come accade quando qualcosa ci viene sottratto, abbiamo dovuto mettere in campo delle reazioni "adattive"».
Uno shock
«Sì, uno shock. È come se dopo un' ubriacatura generale, dove tutti potevamo tutto, dove la socialità era a livelli massimi, di colpo ci fosse stata imposta una pausa».
Sarà un altro shock tornare alla vita di prima?
«Sarà complicato. Dobbiamo reintrodurci nel flusso della vita, dopo un' interruzione piuttosto lunga».
L'aspetto più difficile con cui dovremo confrontarci quale sarà?
«Quello del tempo. Il nostro tempo interiore ora è più lento rispetto a quello del mondo esterno. Dovremmo sincronizzarci con il flusso della vita per tornare al lavoro con gli altri, a fare le cose insieme ma separati».
Saremo capaci di recuperare la nostra socialità?
«Non sarà semplice. Grazie al sostegno del dipartimento di Medicina e Chirurgia della Federico II di Napoli abbiamo attivato un servizio gratuito di emergenza.
Sono già oltre le 600 persone che si sono rivolte in questo periodo, con sintomi depressivi e ansia. L' agorafobia è una della manifestazioni più evidenti di questa situazione che potremmo definire in termini scientifici post traumatica. Ma quella finora emersa è solo la punta dell' iceberg».
Dobbiamo aspettarci molti più casi di persone con patologie psichiche?
«Ci sarà un numero crescente di persone che avranno bisogno di un sostegno psicologico. Non voglio esagerare, ma credo che quasi tutti potremmo soffrire di agorafobia».
In concreto cosa significa?
«Sono già tanti i casi che manifestano questo tipo di disturbo. L' agorafobia è la paura degli spazi aperti. Pensiamo andare in piazza, al parco, al mare. Siamo diventati amanti degli spazi ristretti. Si sta diffondendo, mi lasci passare il termine, una forma di "claustrofilia"».
Per paura del contagio?
«Sì, soprattutto. Il clima generale è la certezza dell' incertezza. Questo cambierà tutto. Sospetteremo di tutti, ci terremo alla larga da tutto ciò che possa generare in noi il sospetto di qualche rischio. Nulla sarà come prima, le relazioni con gli altri saranno dettate da dinamiche completamente diverse».
Eh già, perché ci sarà ancora il metro di distanza fisico da dover rispettare.
«Tutto ciò che consideravamo ovvio muterà. La cultura sud-europea del contatto, della pacca sulla spalla, dell' abbraccio per confortarsi. Anche gli ipocondriaci sono in aumento».
Posso immaginare
«Con forme anche molto severe di ipocondria. Asintomatici capaci di elucubrazioni incredibili sul proprio stato di salute».
Ad esempio?
«C' è chi controlla che la temperatura corporea si mantenga sempre sotto un certo livello».
La paura genererà la tendenza a rimanere tutti più in casa secondo lei?
«Sì, sarà difficile superare l' agorafobia. Soprattutto finché la situazione d' emergenza sanitaria perdurerà. La sola rappresentazione di doversi muovere in mezzo al mondo genererà angoscia. Per questo molti pazienti stanno sviluppando come contrappunto un amore per gli spazi chiusi, dove l' angoscia non si manifesta».
Siamo destinati alla dimensione della solitudine?
«Io dico: "Ma viva Dio che ci siamo confrontati finalmente con la dimensione della solitudine". Non è tutto negativo in questo senso. Eravamo troppo abituati alla finta socialità, al dover essere tutti connessi con tutto. L' angoscia non è un elemento da rifuggire per forza. È una straordinaria opportunità, una palestra interiore incredibile, quando non ha risvolti psicopatologici seri. Abbiamo avuto la possibilità di riflettere su noi stessi come non mai».
Ma siamo cambiati per sempre? Anche quando tutto sarà davvero finito?
«Penso che la natura umana non cambi. Abbiamo avuto a che fare con un ospite inquietante, qualcosa che ha turbato la nostra vita e ce la ricorderemo per sempre.
Pensiamo a chi ha subito un lutto e non ha potuto abbracciare l' ultima volta il proprio caro, è una ferita profonda. Non credo però che la nostra socialità sia destinata a morire. Esiste un aspetto insopprimibile nell' uomo: la propensione verso l' altro. Certo, questo spettro resterà per lungo tempo tra noi. Ci siamo mostrati vulnerabili. Se io devo formulare un auspicio è che non si torni a come eravamo prima, che ci sia più attenzione alle nostre condotte troppo disinvolte. Il mondo continuerà comunque la sua vita».