Fabio Rossi per “il Messaggero”
Maurizio Sanguinetti, direttore del dipartimento di Scienze di laboratorio e infettivologiche della Fondazione policlinico Gemelli e professore ordinario di Microbiologia all'università Cattolica. Perché il numero di contagi continua a crescere da noi più che in altri Paesi?
«Ci sono due problemi specifici, nel Lazio come nel resto d'Italia. Il primo è la percentuale di persone che hanno altre malattie e quindi sono fragili e più facilmente attaccabili dal virus. La seconda cosa è che in Cina è stata militarizzata un'intera regione, da noi è più complicato farlo. Poi, iniziative come l'Italia riparte e simili, possiamo dire che non sono state furbissime: lì c'è stata una maggiore diffusione del virus tra le persone e l'incendio si è propagato in tante fiammelle andate a distanza».
Intanto la curva dei contagi nel Lazio continua a salire. Cosa rischiamo?
«L'incremento c'è, come possiamo osservare dai campioni che esaminiamo al Gemelli. Più contenuto che al Nord ma c'è. L'importante è continuare a monitorare e isolare i casi accertati. Tutti aspettiamo il picco, per iniziare la discesa, ma in alcune regioni come il Lazio la curva è piuttosto piatta, non appuntita come altrove. Questo ci permette di assorbire meglio il colpo».
Le misure di contenimento decise dal Governo sono adeguate?
«Purtroppo è l'unica strada percorribile al momento, stante l'aumento dei casi soprattutto in Lombardia ma ovunque. Da noi l'aumento è più contenuto proprio perché ci sono queste misure, assolutamente necessarie».
In alcuni Paesi si era immaginato di puntare alla immunità di gregge. Cosa ne pensa?
«L'immunità comunitaria impedisce la penetrazione e diffusione di agenti patogeni. Abitualmente questo concetto si applica ai vaccini: più le persone sono vaccinate, più la popolazione è resistente a un determinato patogeno. Il problema è che in questo caso sarebbe un'immunità indotta dalla malattia. Se si trattasse di un raffreddore ci starei anche».
In questo caso non sarebbe praticabile?
«Il problema è che questa malattia costringe il 10 per cento circa delle persone colpite ad avere necessità di assistenza ventilatoria, e questo dato non è legato all'età. Se si ammalasse un milione di persone, quindi, servirebbero centomila posti di terapia intensiva: non credo che sia praticabile, se non come extrema ratio. E non è ancora sicuro che questa malattia dia un'immunità duratura per chi la contrae e guarisce».
C'è stato un problema dovuto all'eccessivo numero di persone che si sono spostate dalle regioni con maggiore contagio verso il centro-sud?
«Molto probabilmente sì, soprattutto nel primo periodo. Ma a questo punto è anche inutile dirlo, perché ormai è fatta. Adesso concentriamoci sul problema che abbiamo».
Le esperienze di Cina e Corea possono esserci utili per capire cosa ci aspetta?
«Al momento no. Quella che potrebbe esserci d'aiuto è l'esperienza cinese, considerando però che noi abbiamo avuto un approccio diverso alle misure di contenimento. Noi sappiamo quanto è durata in Cina, ma al momento fare previsioni su quando finirà l'emergenza da noi è quantomeno rischioso. Se diciamo che fra una settimana ci sarà il picco e poi questo non avviene, perdiamo di credibilità. E in questo momento sarebbe la cosa peggiore. Diciamo che il nostro periodo di diffusione potrebbe essere un po' più lungo di quello cinese».Fabio Rossi per “il Messaggero”
coronavirus, parco della caffarella di roma 8
Maurizio Sanguinetti, direttore del dipartimento di Scienze di laboratorio e infettivologiche della Fondazione policlinico Gemelli e professore ordinario di Microbiologia all'università Cattolica. Perché il numero di contagi continua a crescere da noi più che in altri Paesi?
«Ci sono due problemi specifici, nel Lazio come nel resto d'Italia. Il primo è la percentuale di persone che hanno altre malattie e quindi sono fragili e più facilmente attaccabili dal virus. La seconda cosa è che in Cina è stata militarizzata un'intera regione, da noi è più complicato farlo. Poi, iniziative come l'Italia riparte e simili, possiamo dire che non sono state furbissime: lì c'è stata una maggiore diffusione del virus tra le persone e l'incendio si è propagato in tante fiammelle andate a distanza».
Intanto la curva dei contagi nel Lazio continua a salire. Cosa rischiamo?
«L'incremento c'è, come possiamo osservare dai campioni che esaminiamo al Gemelli. Più contenuto che al Nord ma c'è. L'importante è continuare a monitorare e isolare i casi accertati. Tutti aspettiamo il picco, per iniziare la discesa, ma in alcune regioni come il Lazio la curva è piuttosto piatta, non appuntita come altrove. Questo ci permette di assorbire meglio il colpo».
Le misure di contenimento decise dal Governo sono adeguate?
«Purtroppo è l'unica strada percorribile al momento, stante l'aumento dei casi soprattutto in Lombardia ma ovunque. Da noi l'aumento è più contenuto proprio perché ci sono queste misure, assolutamente necessarie».
In alcuni Paesi si era immaginato di puntare alla immunità di gregge. Cosa ne pensa?
«L'immunità comunitaria impedisce la penetrazione e diffusione di agenti patogeni. Abitualmente questo concetto si applica ai vaccini: più le persone sono vaccinate, più la popolazione è resistente a un determinato patogeno. Il problema è che in questo caso sarebbe un'immunità indotta dalla malattia. Se si trattasse di un raffreddore ci starei anche».
In questo caso non sarebbe praticabile?
coronavirus, roma nel secondo giorno di quarantena 59
«Il problema è che questa malattia costringe il 10 per cento circa delle persone colpite ad avere necessità di assistenza ventilatoria, e questo dato non è legato all'età. Se si ammalasse un milione di persone, quindi, servirebbero centomila posti di terapia intensiva: non credo che sia praticabile, se non come extrema ratio. E non è ancora sicuro che questa malattia dia un'immunità duratura per chi la contrae e guarisce».
C'è stato un problema dovuto all'eccessivo numero di persone che si sono spostate dalle regioni con maggiore contagio verso il centro-sud?
«Molto probabilmente sì, soprattutto nel primo periodo. Ma a questo punto è anche inutile dirlo, perché ormai è fatta. Adesso concentriamoci sul problema che abbiamo».
Le esperienze di Cina e Corea possono esserci utili per capire cosa ci aspetta?
«Al momento no. Quella che potrebbe esserci d'aiuto è l'esperienza cinese, considerando però che noi abbiamo avuto un approccio diverso alle misure di contenimento. Noi sappiamo quanto è durata in Cina, ma al momento fare previsioni su quando finirà l'emergenza da noi è quantomeno rischioso. Se diciamo che fra una settimana ci sarà il picco e poi questo non avviene, perdiamo di credibilità. E in questo momento sarebbe la cosa peggiore. Diciamo che il nostro periodo di diffusione potrebbe essere un po' più lungo di quello cinese».