Francesco Rigatelli per “la Stampa”
«La Lombardia pensa al coprifuoco dalle 23 alle 5 e alla chiusura dei grandi negozi nel weekend? Male non fa, purtroppo non è più tempo di stare davanti ai locali e frequentare luoghi affollati, ma di limitare i contatti superflui, come ben indicato dagli ultimi due decreti del governo». È ora di cena e Andrea Crisanti, 66 anni, professore ordinario di Microbiologia all'Università di Padova, arriva a casa dopo una giornata in ospedale: «Non ho più niente a che fare con la Regione Veneto, ma pure a livello locale la seconda ondata necessita di molte energie. Finalmente mi rilasso e vorrei cogliere l'occasione per spiegare bene il mio pensiero».
Non si riconosce più nel ruolo del grillo parlante?
«Come tutti vorrei solo che la pandemia finisse il prima possibile. Quando parlo lo faccio su un piano scientifico, non personale o politico. Mi interessa che vengano prese delle misure basate sui migliori dati disponibili. Se avviene non ho problemi ad ammetterlo, altrimenti divento critico, ma sempre per deformazione professionale. Non credo che le tifoserie abbiano senso, né aiutino a risolvere i problemi».
Ha visto il discorso di Conte?
«Sì e devo dire che da giorni speravo parlasse al Paese in modo così chiaro e prendesse le misure necessarie».
Sono le misure basate sui dati da lei auspicate?
«Sì, condivido l'idea di ridurre al massimo i contatti sociali per provare a salvare scuola e lavoro».
Le misure rallenteranno i contagi?
«Lo spero fortemente, ma la verità è che non lo sa nessuno. Tutto dipende dai comportamenti degli italiani. Credo che stavolta il messaggio sia arrivato forte e chiaro, per cui mi aspetto dei risultati».
Ora non sia troppo ottimista, cosa non la convince?
«La posizione del Comitato tecnico scientifico resta incomprensibile. Forse sulle palestre si poteva essere più duri fin da subito, ma mi pare una questione marginale. E poi immagino che le ultime misure, come tutte quelle precedenti, siano uscite dal Cts. È un processo poco chiaro e forse il governo dovrebbe iniziare a consultare non dico me, ma qualcuno che avesse capito che l'epidemia non finiva l'estate scorsa».
Cosa ha sbagliato il Cts?
«Non si è mai posto il problema di come tenere bassi i contagi e si è illuso che l'epidemia finisse a giugno. Allo stesso modo ora centellina ogni settimana nuove misure mettendo in difficoltà lo stesso governo. Se a novembre il contagio calasse ci vorrebbe un piano nazionale di sorveglianza e di prevenzione per stabilizzare la situazione e non vivere in altalena i prossimi otto mesi. Anche sui test la burocrazia del Cts ci ha privato degli strumenti adatti a controllare il contagio».
I famosi tamponi?
«È un'interpretazione semplicistica, attorno ad essi serve tutta l'organizzazione necessaria. Quella che è mancata nelle settimane scorse e che ha costretto il governo a intervenire duramente».
Per novembre cosa prevede?
«Se queste misure non fossero state promulgate saremmo arrivati alla situazione francese, mentre ora immagino uno scenario simile a quello inglese, dove provvedimenti analoghi stanno portando dei risultati».
Resta da risolvere il nodo di bar e ristoranti, quanto contano?
«Un piccolo effetto sul contagio lo hanno e bene ha fatto il governo a fermare la movida. Se le nuove misure funzioneranno riusciremo a tenerli aperti anche se con distanze, mascherine, posti limitati e zero assembramenti».
Altrimenti?
giuseppe conte agostino miozzo
«Se i casi aumenteranno drammaticamente bisognerà ripensare i provvedimenti».
Quanto è probabile il lockdown?
«Molto improbabile, gli scenari sono tre: se i contagi scendessero servirebbe un piano per tenerli bassi fino al vaccino; se si arrivasse soltanto ad un appiattimento della curva potrebbero essere necessarie nuove misure più severe o una pausa di qualche tipo; se i contagi aumentassero di molto si arriverebbe a dei lockdown settoriali».
Cosa intende con pausa e lockdown settoriali?
«Una pausa di alcune categorie per calmare i contagi oppure chiusure di locali, scuole e movimenti tra regioni».
Dica la verità, il lockdown generale è improbabile perché è bello sperarlo o perché ci crede?
«No, no, perché ci credo».