Luigi Ripamonti per il "Corriere della Sera"
Professor Mantovani, le decisioni di diversi Paesi di cambiare i criteri di somministrazione del vaccino AstraZeneca hanno disorientato parecchie persone.
«Capisco l' esitazione di fronte a messaggi contraddittori, che generano incertezza.
Bene che si analizzino tutti i dati disponibili su possibili eventi avversi in giovani donne, a protezione della salute pubblica. I casi gravi di trombosi osservati in relazione al vaccino potrebbero essere forse causati, secondo una recente pubblicazione, dalla formazione di autoanticorpi, come succede, in rarissimi casi, durante trattamenti con eparina: una condizione definita Vipt ( Vaccine induced prothrombotic immune thrombocytopenia ).
Se confermata, l' osservazione potrebbe guidare la diagnosi e la terapia di questi, pur molto rari, eventi avversi. Per ora l' analisi condotta da Ema sul vaccino Oxford AstraZeneca ha rassicurato sul fatto che non causi un aumento della frequenza di tromboembolia, aspettiamo ulteriori analisi. In Gran Bretagna non si è osservato un eccesso di eventi tromboembolici nei 20 milioni di persone vaccinate con Oxford AstraZeneca rispetto ai vaccinati con BioNTech Pfizer e rispetto a quanto normalmente atteso. In Humanitas abbiamo vaccinato oltre 22 mila persone senza problemi inattesi. Aspettiamo altri dati, ma tre giovani donne della mia famiglia si sono vaccinate con Oxford AstraZeneca e io sono tranquillo».
In generale, chi ha avuto Covid-19 deve vaccinarsi?
«Sappiamo che la malattia dà un certo grado di protezione, stimata all' 80% in un arco di osservazione dai 5 ai 7 mesi. Dati molto recenti su 12 mila soggetti che fanno parte del personale sanitario britannico e su 4 milioni di persone in Danimarca hanno confermato che chi ha avuto il Covid, confermato con test molecolare, ha un grado di protezione importante, ma solo nell' ordine del 40% in chi ha più di 65 anni. Quindi chi ha avuto il Covid deve vaccinarsi, però diversi studi dimostrano che è sufficiente una sola dose, cosa che, fra l' altro, farebbe risparmiare due milioni di dosi di vaccino in Italia, mentre su scala globale questa strategia "salverebbe" cento milioni di vaccini a costo zero. Preoccuparsi di questo aspetto è nel nostro interesse.
È la strategia delle due esse: solidarietà per motivi etici e sicurezza nostra, perché se non facciamo arrivare i vaccini anche nei Paesi a basso reddito saremo sommersi dalle varianti. A questo proposito è importante, anche se passato piuttosto sotto silenzio, che di recente al Senato il presidente del Consiglio abbia menzionato come attività di salute globale che dobbiamo sostenere Covax (Covid-19 Vaccine Global Access), il programma internazionale per fornire ai Paesi poveri accesso ai vaccini anti-Covid».
La seconda dose di vaccino è necessaria per tutti?
«Nella popolazione più grande che è stata studiata, in Israele, dopo la prima dose di Pfizer i dati indicavano una protezione del 60% contro la malattia grave e del 90% dopo la seconda somministrata nei tempi giusti, quindi la seconda dose, in generale, serve. Il vaccino Oxford AstraZeneca era nato come singola dose poi è stato deciso di fare anche la seconda, ritardata fino a 12 settimane, quando ci si è resi conto che c' era un problema di durata della risposta immunitaria.
Per quanto riguarda il vaccino Johnson & Johnson, anche questo basato su adenovirus, i dati indicano una protezione del 77% dopo una sola dose, inferiore in Sudamerica e Africa, dove è intorno al 50%. Quanto a Sputnik V, anch' esso su base adenovirus, i tassi sono apparentemente anche migliori ma i dati si riferiscono per ora a 27 giorni dopo la prima dose».
Nei soggetti fragili la protezione del vaccino è efficace?
«I dati indicano che in alcune categorie di soggetti fragili il vaccino può funzionare un po' meno bene: dobbiamo vaccinare sicuramente le persone fragili, ma anche studiare come proteggerle al massimo, quindi capire quando vaccinarle, individuare quali fra di loro hanno una risposta maggiore o minore. Dobbiamo accompagnare la vaccinazione con programmi di ricerca che permettano di rispondere sempre meglio alle loro esigenze. In questo senso sono in corso studi collaborativi fra diversi istituti che avranno probabilmente il sostegno del ministero della Salute».
Qualcuno pensa che se continuiamo a vaccinare selezioneremo più varianti.
«Più il virus si replica e più genera varianti. Dobbiamo fermare la corsa del virus.
Dobbiamo impedire che circoli, qui e altrove».
La riduzione delle infezioni nel Regno Unito è dovuta più alla vaccinazione diffusa o più alle chiusure?
«Credo che entrambe abbiano contribuito. Quanto ai vaccini lo abbiamo visto anche noi: nella prima popolazione che abbiamo vaccinato, cioè gli operatori sanitari, c' è stato un crollo delle infezioni. E serve il lockdown per la ragione appena detta: impedire che il virus circoli. Uno dei grandi studi di popolazione, condotto in Scozia, dimostra che entrambe le cose servono. L' importante è condurre studi seri per poter avere risposte solide, e questo vale anche per le terapie con i farmaci».
A proposito di farmaci, a che punto siamo? E che prospettive ci sono?
«Ci sono stati purtroppo diversi insuccessi: per esempio vecchi antivirali, ivermectina, colchicina, la combinazione azitromicina-idrossiclorochina non hanno retto alle verifiche di sperimentazioni rigorose sebbene avessero dato speranze in studi osservazionali limitati a poche decine o centinaia di soggetti. In realtà non è strano perché questi studi possono avere valore se generano ipotesi, ma le ipotesi però vanno poi verificate in studi prospettici rigorosi, altrimenti si rischia di dare tossicità ai pazienti.
Serve cautela, ancora di più se queste sperimentazioni non vengono pubblicate da riviste scientifiche accreditate. Un altro caso paradigmatico è stato quelle del siero iperimmune sul quale il National Health Institute americano ha sospeso la sperimentazione nei pazienti ambulatoriali per mancanza di efficacia».
Il cortisone funziona?
«Il desametasone, e per estensione i cortisonici, si è dimostrato attivo su pazienti con insufficienza respiratoria e bisogno di assistenza respiratoria, mentre in altre condizioni i dati suggeriscono che possa addirittura essere nocivo. Questo viene chiaramente detto dalle linee-guida Idsa ( Infectious Disease Society of America ), che sono molto rigorose e rappresentano un punto di riferimento. Anche Anthony Fauci, del resto, su Jama (la rivista dell' Associazione dei medici americani), ha espresso preoccupazione perché si vedono, e li vediamo anche noi in Italia, arrivare pazienti in Pronto soccorso trattati con desametasone fuori delle indicazioni.
Il motivo è che si tratta di un farmaco che inibisce l' infiammazione ma anche la riposta immunitaria, la quale, nella maggior parte dei casi, in persone per altri versi sane, di solito riesce a contrastare l' infezione. Il trattamento con desametasone in fase precoce domiciliare in assenza di insufficienza respiratoria grave non è previsto in nessuna linea-guida che io conosca, e la Regione Emilia-Romagna ha diffidato il ricorso ad esso nelle prime fasi domiciliari. Una lezione che si può ricavare dal caso desametasone è l' importanza di un servizio sanitario pubblico e universalistico anche come grande laboratorio di ricerca, visto che molte informazioni, positive o negative, le abbiamo dal Recovery Trial che è uno studio svolto nel contesto del servizio sanitario inglese».
E la vitamina D?
«La Vitamina D ha fallito nello studio di verifica, anche se c' erano i presupposti razionali per condurlo, visto che è stata osservata un' associazione fra bassi livelli di vitamina D e un cattivo decorso dell' infezione. E sappiamo sia che la vitamina D spesso è carente negli anziani sia che è importante per il sistema immunitario. Chi ha bisogno, in generale, della vitamina D deve però continuare a prenderla».
Nessuna speranza allora sul fronte farmaci?
«Al contrario, ad esempio ci sono dati interessanti per strategie che mirano a inibire molecole come le interleukine 6 e 8 e l' enzima Jak che giocano un ruolo importante nei gravi fenomeni infiammatori che si verificano in corso di Covid.
Aspettiamo i risultati di sperimentazioni rigorose in proposito. Per gli anticorpi monoclonali la situazione è in divenire, ma le combinazioni di monoclonali sono già più di una promessa. Il sogno che tutti abbiamo è di disporre di una pillola come quelle per il virus Hiv, che riesca a tenere sotto controllo l' infezione, e ci sono composti in fase 2 di sperimentazione che ci danno motivi di speranza in questo senso. Se le cose andranno bene, per la fine dell' anno forse potremo avere un armamentario di strumenti studiati in protocolli seri fra i quali scegliere in base sia al paziente sia alla fase dell' infezione».
Potremo sapere qualcosa di più dagli studi genetici?
«La malattia è un incrocio fra predisposizione genetica e autoimmunità. In tanti si sono cimentati in analisi del rischio genetico. Di recente tutti quelli che hanno condotto studi su polimorfismi genetici e rischio di Covid-19 si sono messi insieme in uno sforzo globale e il loro lavoro si è tradotto in un documento scientifico sottomesso a verifica per essere pubblicato su una rivista molto autorevole e nel frattempo è già consultabile in open access (accessibile a tutti gratuitamente). Ciò che colpisce è che gli autori sono ben 2.800. Una prova di collaborazione senza precedenti».
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