Donatella Zorzetto per www.lastampa.it
Invece di combattere il virus SARS CoV-2 frontalmente, gli chiudiamo la porta in faccia. Come? Usando una medicina che fino ad oggi è stata utilizzata per trattare un particolare disturbo del fegato. È questo il principio che ispira il cambio di rotta nella individuazione di nuovi farmaci anti-Covid: anziché utilizzare come bersaglio il virus, si punta a sbarrarne l'accesso, cioè i recettori presenti sulle cellule umane.
Un nuovo approccio nelle terapie da somministrare ai pazienti infetti, che ha mostrato di funzionare sia su organoidi (versione semplificata e miniaturizzata di un organo prodotto in vitro in tre dimensioni che mostra caratteristiche microanatomiche realistiche), sia su cavie (criceti), che su persone. Così, i nuovi farmaci anti-Covid aprono la strada a una realtà in cui non sarà più l'uomo a rincorrere il virus, che attacca grazie all'incessante mutare attraverso nuove varianti, perché un farmaco ne disinnescherà il meccanismo.
La scoperta che rivoluziona le cure
Il risultato della sperimentazione è stato pubblicato sulla rivista Nature, scoperta attribuibile a una ricercatrice italiana. Si chiama Teresa Brevini, è una dottoranda milanese, e lavora al Wellcome-MRC Cambridge Stem Cell Institute, Cambridge, nel Regno Unito.
Il farmaco, che secondo questa nuova terapia potrebbe essere utilizzato con successo, porta il nume di Udca, ed è già stato testato contro il Covid su mini-organi cresciuti in laboratorio (organoidi), su criceti, su polmoni umani e su alcuni volontari. L'esperimento ne ha dimostrato la piena efficacia.
Il punto di partenza
Secondo Fotios Sampaziotis, ricercatore al Wellcome-MRC Cambridge Stem Cell Institute dell'Università di Cambridge e primario di epatologia all'Addenbrooke's hospital Cambridge, che ha guidato la ricerca, il punto di partenza è dato dal fatto che "i vaccini hanno cambiato il corso della pandemia Covid, addestrando il sistema immunitario delle persone a riconoscere ed eliminare il virus della SARS-CoV-2", ma "non sono sempre efficaci nei pazienti con un sistema immunitario debole o contro alcune varianti del virus. Inoltre, nonostante gli sforzi internazionali, non tutti hanno accesso alla vaccinazione, a causa del costo che comporta e delle disparità nella disponibilità del vaccino".
La sfida della prevenzione dal Covid
Quindi la sfida nella gestione del Covid nell'era post-vaccinale è un'altra: la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2 nei gruppi non vaccinati. E la soluzione può arrivare, sempre secondo gli autori della ricerca, "dall'utilizzo di farmaci ampiamente accessibili".
Ma a due condizioni: per aiutare le persone con un sistema immunitario debole, questi farmaci non devono necessitare di un sistema immunitario ben funzionante, e per evitare che il virus possa sfuggire al trattamento mutando, non dovrebbero agire su di esso.
Trovata la 'porta d'ingressò al virus
Seguendo questo percorso obbligato, i ricercatori hanno individuato una proteina recettoriale (ACE2), posta sulla membrana delle cellule umane: essa costituisce la principale 'porta d'ingressò che il SARS-CoV-2 utilizza per entrare e infettarle. Per studiarne la funzione e il modo in cui influisce sull'infezione virale, gli esperti hanno utilizzato cellule umane, così da creare organoidi in laboratorio su cui poter lavorare.
Ed è arrivata la conferma. Prima di tutto hanno scoperto che il blocco di una proteina sensibile agli acidi biliari chiamata recettore X farnesoide (FXR) (che si trova in grandi quantità nel fegato, ma è presente anche in altre parti del corpo) riduce la quantità di ACE2 sulla superficie delle cellule. Di conseguenza hanno trattato gli organoidi con un farmaco chiamato acido ursodesossicolico (Udca), che blocca l'FXR5 ed è usato per trattare alcune malattie del fegato. L'Udca ha ridotto i livelli di ACE2 e l'infezione da SARS-CoV-2 delle cellule nei modelli organoidi di polmone, intestino e fegato umani.
L'esperimento sugli organismi viventi
Subito dopo l'esperimento è stato trasferito su organismi viventi: i ricercatori hanno dimostrato l'efficacia del farmaco sui criceti, nonché su polmoni umani donati e non adatti per il trapianto, mantenuti funzionanti al di fuori del corpo. Per la precisione, i polmoni sono stati esposti al virus, e ad uno di essi è stato somministrato il farmaco: quest'ultimo non si è infettato, al contrario dell'altro.
Infine, l'équipe di Cambridge ha reclutato otto volontari ai quali ha dato il farmaco. E i pazienti hanno mostrato un abbassamento dei livelli di recettori ACE2 nelle cellule del naso, fattore che darebbe al virus minori possibilità di infezione.
"L'Udca va usato insieme alla vaccinazione"
Un risultato che, secondo gli studiosi, apre nuovi orizzonti: accessibili e non a lungo termine. "Utilizzando quasi tutti gli approcci a nostra disposizione - sottolinea Brevini - abbiamo dimostrato che un farmaco esistente chiude la porta al virus". E Sampaziotis evidenzia: "I nostri risultati suggeriscono che l'Udca potrebbe avere un ruolo importante nella gestione della Covid. È importante sottolineare che, ove possibile, proponiamo che l'Udca venga utilizzato insieme alla vaccinazione, piuttosto che sostituirla". Concludendo: "L'ovvio passo successivo è quello di condurre ampi studi randomizzati e controllati per valutarne l'efficacia in clinica".
vaccino contro il covid laboratorio di ricerca