Massimo Rebotti per il ''Corriere della Sera''
Arrivarono a rompere i vetri delle cassette degli estintori, i medici e gli infermieri dell'ospedale di Alzano lombardo, per prendere le mascherine che c'erano all'interno e usarle in reparto. Era accaduto anche questo, nel presidio della Val Seriana, dopo i primi pazienti risultati positivi, il 23 febbraio, e la coda in pronto soccorso che iniziava ad allungarsi a dismisura, piena di persone che non riuscivano più a respirare. I pochi dispositivi di protezione che c'erano già in ospedale andarono esauriti nel giro di 24 ore e il personale si ritrovò spiazzato.
ospedale pesenti fenaroli alzano lombardo
E il racconto sulle cassette rotte, un gesto disperato, è emerso dalle testimonianze degli operatori sanitari, ascoltati in Procura a Bergamo: si trattava davvero di spegnere un «incendio», quello del contagio, che in ospedale stava covando da giorni (almeno dalla metà del mese) e rischiava di travolgere pazienti e personale. Un passaggio drammatico, che si aggiunge a una serie di dubbi, sollevati ieri da Report , sulla distribuzione di dispositivi di protezione da parte della Regione Lombardia alle Aziende socio sanitarie territoriali.
Tra il 27 e il 29 febbraio la centrale acquisti di Palazzo Lombardia, Aria spa, avrebbe spedito, per esempio, 35.700 mascherine ffp2 a Lecco, altrettante a Como, Monza e Varese, quattro province dove i dati del contagio non erano assolutamente paragonabili, allora, a quelli della Val Seriana. Alla Asst di Seriate (che coordina anche Alzano), ne erano arrivate la metà. E ancora, l'11 marzo, 4 tute protettive alla stessa Asst bergamasca, contro le 17 andate alle altre quattro province. In una mail ai colleghi il direttore amministrativo di Seriate, Luca Vecchi, aveva previsto amaramente: «Ci daranno gli stessi camici della Valtellina, che al momento ha 8 positivi».
L'allarme era suonato anche sui tamponi, da parte del responsabile della Medicina del Lavoro, che via mail scriveva alla sua direzione di non poter fare «sorveglianza sanitaria sul personale», non avendo i test a disposizione. Si chiamava Marino Signori: è morto a causa del Covid. Era accaduto anche altro, tra Seriate e Alzano. Il 14 marzo la direzione ospedaliera aveva chiesto una fornitura di caschi c-pap, che aiutano la respirazione di chi non riesce a inalare ossigeno a sufficienza. Bergamo e la Val Seriana erano travolte dal Covid.
Ma il 16 non era ancora arrivato nulla, e via mail, l'ospedale, aveva chiesto ad Aria cosa stesse accadendo, perché quel ritardo. Una risposta disarmante: «L'unità di crisi regionale si è dimenticata di inviare l'ordine». Per questo motivo la ditta appaltatrice non ne sapeva nulla. È una vicenda che la Procura di Bergamo vuole approfondire: agli atti ci sono anche testimonianze di parenti delle vittime. Qualcuno ha riferito che sulla cartella della madre, deceduta, il c-pap veniva indicato come fondamentale, ma non era mai stato usato perché non disponibile.
Uno scenario complessivo di impreparazione ad affrontare l'emergenza, una corsa contro il tempo quando l'epidemia era già esplosa. Un fronte su cui i pm procedono a ogni livello, a partire dall'ultimo Piano pandemico nazionale, approvato dal ministero della Salute nel 2017: in quel documento, acquisito dalla magistratura, si notano passaggi identici al Piano del 2006. Anche nelle date. Quando si parla per esempio di stock di farmaci antivirali che «sarà completato entro il 2006».
Fu un copia e incolla? In Procura è stato sentito per cinque ore Ranieri Guerra, che allora era direttore del Ministero, e oggi è vicario dell'Oms. Il verbale è stato secretato. Il medico veronese, con una lunga esperienza internazionale e un curriculum di primissimo livello, avrebbe spiegato che i contenuti del Piano erano comunque validi, non essendoci stati grandi stravolgimenti tra il 2006 e il 2017. milano Giorgio Gori ha attraversato l'esperienza di essere il sindaco di Bergamo nei mesi in cui la città è stata stravolta dall'epidemia: «Per me è stato un incontro con la sofferenza e con la morte a cui, in una dimensione così vasta, non ero preparato. Ma ho visto anche la forza e la coesione di una comunità».
ospedale pesenti fenaroli di alzano lombardo
Ora, nel pieno di una seconda ondata, che fortunatamente a Bergamo finora è stata meno dura, con un libro Gori chiama al «riscatto». «È quasi un incitamento, e vale sia per Bergamo che per l'Italia. Per la mia città rappresenta l'urgenza di rimettersi in piedi. Per il nostro Paese quella di superare problemi che si porta dietro da molto tempo. È durante la crisi che dobbiamo riuscire a progettare il futuro». Chi lo dovrebbe fare? «Troppi sono stati alla finestra. C'è un'ampia parte della classe dirigente che ha ritenuto che la politica non la riguardasse. Le élite sono state sotto accusa perché autoreferenziali e conservatrici: giustamente. Ma per governare la complessità serve la cultura delle élite, purché empatiche e generose. È il momento di spendersi».
A lei qualche giorno fa hanno fatto una manifestazione sotto casa. Il vento può cambiare in fretta. «I bergamaschi hanno conosciuto la faccia più drammatica dell'epidemia. Oggi, visti i numeri, fanno forse più fatica di altri a capire le limitazioni, ad essere accomunati ad altre zone dove il contagio è più allarmante. Io capisco il malessere: chi è andato in piazza teme di non aprire più. Dopodiché nell'"assedio" a casa mia si sommano due cose: il fatto che molti vedano il sindaco come lo Stato, ben oltre le sue reali competenze; e la strumentalizzazione da parte di gruppi di destra».
In «Riscatto» parla del suo passato - dalla passione per la politica alla tv con Berlusconi - ma soprattutto di futuro, giovani, scuola. Questioni che l'epidemia ha ricacciato in secondo piano «Il Covid è un ulteriore ostacolo che rischia di inchiodarci al presente. Ma per la politica è vitale avere un orizzonte più lungo, che non sia determinato dall'ultimo sondaggio. Per questo ci vogliono strumenti che restituiscano alla politica la capacità di decidere e partiti più forti, radicati nella società». Parliamo del suo. È adatto il Pd alle sfide che individua nel libro? «Continuo a credere nel Pd. Ma la combinazione di stagnazione, crisi demografica e debito pubblico che caratterizza il "caso italiano" ci impedisce di far affidamento sulle ricette socialdemocratiche del '900».
Infatti lei auspica un partito in cui riformisti e «liberal» abbiano più peso. E che non faccia patti politici col M5S. «Populismo, statalismo, giustizialismo e cultura antiparlamentare - l'essenza del M5S - sono lontanissimi dalla mia concezione della politica. Tuttavia la scorsa estate anch' io ho incoraggiato l'avvio di una collaborazione: per "stato di necessità". Ben altro è però prefigurare un matrimonio, o che da lì nasca il nuovo centrosinistra, che è ciò che pare auspicare una parte del mio partito, quella che nel libro indico come "statal-socialista"». Ma il Pd è al 20%. Se vuole vincere con qualcuno si dovrà pur alleare.
«Si sostiene la necessità di fare argine al populismo della destra. Io vedo piuttosto il rischio di una deriva statalista, accompagnata da sfiducia verso il mercato. Non si può poi non notare che nel frattempo i 5 Stelle da Roma in su non esistono quasi più, e infatti nei Comuni abbiamo vinto quasi ovunque senza di loro. A maggior ragione è importante che al governo il Pd riesca ad imporre la sua agenda». Oltre all'attuale, dedica pagine anche al Pd di Renzi. «Ho condiviso molte delle sue idee, gli sono amico. Ma non sono mai stato un follower».