Michele Bocci per “la Repubblica”
I dati delle regioni non sono attendibili e quindi non possono essere di aiuto alle decisioni della politica. Secondo Walter Ricciardi, consulente del ministero alla Salute, il 3 giugno è troppo presto per riaprire i confini. Un via libera in queste condizioni «esporrebbe a rischi».
In più, la situazione in Lombardia è preoccupante.
Cosa ne pensa di quello che sta accadendo in Corea?
«Che si tratta della dimostrazione di come il virus continuerà a circolare finché non sarà eliminato a livello globale. Ci vuole un' azione mondiale coordinata e anche interventi molto decisi a livello locale».
Hanno chiuso tutto con solo 80 nuovi casi. Non è una decisione eccessiva?
«Dal punto di vista di questa malattia 80 casi sono tanti. Del resto questa pandemia è iniziata da un solo caso. Quando si lascia un focolaio epidemico diffondersi, si passa da 2 positivi a 2mila dopo 15-20 giorni. Se non si controllano i focolai la malattia da un certo momento non si diffonde più in maniera incrementale ma esponenziale. Per questo vediamo interventi come quello della Corea oppure quello della Cina, che per pochi contagiati ha bloccato tutta una zona del Paese e fatto 7 milioni di tamponi in 7 giorni».
Da noi qual è stato l' effetto delle riaperture?
«Finora è andata bene soprattutto grazie al comportamento degli italiani, che stanno evidentemente rispettando le buone regole per evitare i contagi. È importante però non abbassare la guardia proprio per non vanificare i sacrifici fatti. Quanto alle riaperture del 18 maggio dobbiamo aspettare ancora qualche giorno, in alcune regioni del nord si vede un po' di movimento».
E allora perché il monitoraggio basato sui 21 indicatori anche questa settimana dà un rischio basso in tutte le grandi regioni?
«Il sistema di indicatori è stato elaborato a livello centrale, giustamente, ma è alimentato da attività di diagnostica e dalle segnalazioni delle regioni, quindi dipende dalle capacità di gestione dei sistemi regionali. Se sono efficaci ed efficienti, allora i dati sono attendibili. Se non lo sono, per una serie varia di ragioni, quei numeri non sono attendibili. E ci sono motivi seri per pensare che in alcune regioni questi dati adesso non lo siano».
Un quadro preoccupante.
«Dalla modifica costituzionale del 2001 raramente è successo che il sistema di indicatori abbia funzionato in modo efficiente e tempestivo. In questo caso poi il flusso dei dati non è solo amministrativo ma riguarda anche l' attività di laboratorio, le diagnosi. Quindi è ancora più complesso» .
Viste queste premesse, cosa deve decidere secondo lei la politica per il 3 giugno?
«La politica può prendere decisioni se è certa dei dati. La scelta è giusta se si basa su indicatori giusti, ma in questo caso, appunto potrebbero non essere solidi. Se i numeri non sono certi si finisce per fare scelte che possono non essere corrette».
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Quindi non bisognerebbe riaprire anche se il rischio in base al monitoraggio è basso?
«È troppo presto per prendere una decisione, un' apertura in queste condizioni esporrebbe a rischi. Bisognerebbe riaprire quando si è certi che i dati siano validi».
Avrebbe senso tenere chiusa una sola regione, la Lombardia?
«Hanno 20mila positivi a domicilio, senza contare gli asintomatici che non sanno di essere contagiati. Questi dati invitano alla massima prudenza. Poi il decisore è politico. La Corea ha chiuso con 70 casi e la Cina 40».
Cosa pensa del passaporto immunitario chiesto da alcune regioni?
«Dal punto di vista tecnico e scientifico non ci sono presupposti per realizzarlo.
Tamponi ed esami sierologici non garantiscono, ad esempio, che chi sta incubando la malattia sia sempre rilevato».