Francesco Malfetano per "il Messaggero"
La variante delta (ex indiana) fa paura. E non solo al di là del canale della Manica dove il premier Boris Johnson ha già annunciato lo slittamento delle riaperture, ma anche qui, nella Penisola. Gli 81 casi di virus mutato segnalati ieri dai laboratori della Lombardia sono un campanello d' allarme. Così come lo sono i 25 segnalati in Puglia o i 12 isolati in Sardegna nei giorni scorsi.
Eppure stando all' ultimo monitoraggio dell' Istituto superiore di sanità (Iss), le varianti B.1.167.1/2 attestano la loro presenza nella Penisola solo all' 1%. Un dato, rimarcato anche dal presidente dell' Iss e portavoce del Comitato tecnico scientifico (Cts) Silvio Brusaferro, che da più parti è stato usato per tranquillizzare sull' impatto che la mutazione ha sulla Penisola.
I MONITORAGGI
Le cose però potrebbero non stare proprio così. Non solo perché il monitoraggio in questione risale a più di due settimane fa (28 maggio), quanto soprattutto perché la nostra capacità di sequenziamento - fondamentale per comprendere e magari anticipare lo sviluppo di un' epidemia - è davvero scarsa.
A testimoniarlo il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) che ha stabilito come ogni paese Ue debba riuscire a sequenziare almeno il 5% dei casi rilevati ogni giorno con i tamponi. Tuttavia, stando al principale portale per la condivisione dei dati genomici (Gisaid), a partire dall' inizio dell' anno l' Italia ha sequenziato appena lo 0,7% dei tamponi positivi. Poco più di 30mila su circa 4 milioni di casi registrati. Se invece si considerano solo gli ultimi 3 mesi, la percentuale dei tamponi sequenziati sale ad un comunque insufficiente 1,45%.
Lo standard peraltro non è rispettato da molti stati Ue, incluse Germania (nel 2021 ferma al 3,4%) e Francia (0,7%). Al contrario, nel Regno Unito, nello stesso periodo è stato esaminato circa il 10% dei tamponi totali. Non c' è quindi da stupirsi se le nuove varianti vengono individuate prima. Semplicemente le cercano davvero. Come?
Grazie ad un consorzio (Cog-Ug) finanziato da un ente benefico (Wellcome Trust) e capace di mettere in rete università, laboratori e centri di ricerca. Vale a dire lo stesso identico progetto che in Italia proviamo a realizzare invano da mesi. Il Consorzio Italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di SARS-CoV-2 e per il monitoraggio della risposta immunitaria alla vaccinazione è stato istituito (e già finanziato) a gennaio scosso dal ministero della Salute e dall' Agenzia italiana del farmaco ma ancora non ha visto la luce.
LA RETE
Tuttavia la situazione, come dimostrano i pochi casi sequenziati, è ancora al palo e questo ci espone ad un rischio maggiore di trovarci impreparati davanti alle nuove varianti. Ammesso che questo non sia già accaduto con la delta.
Come se non bastasse, in Italia, avremmo già strutture, laboratori e competenze per rimediare subito ma è tutto bloccato da burocrazia e «vecchie incrostazioni» del sistema. A spiegarlo è Graziano Pesole, genetista e coordinatore di Elixir, un' infrastruttura finanziata dalla Commissione Ue e con sede a Bari che, insieme a una rete di 23 università e centri di ricerca distribuiti in tutta la Penisola, gestisce la porzione italiana del Covid-19 Data Portal, la piattaforma dove si riportano le sequenze genetiche delle varianti di tutto il mondo.
Una rete che «sin dall' inizio della pandemia si è messa a disposizione per sequenziare il virus» spiega Pesole e che riuscirebbe a garantire ben più del 5% richiesto dall' Ecdc («Penso che il Tigem di Pozzuoli, l' istituto di Telethon, potrebbe raggiungerlo da solo»). Eppure la rete Elixir non è mai stata incaricata.
Tant' è che oggi il sequenziamento è attribuito agli Istituti Zooprofilattici e i laboratori di microbiologia degli ospedali Covid. «Strutture che fanno resistenza ma che, a differenza nostra - aggiunge il genetista - non hanno oppure hanno appena maturato le necessarie competenze di genomica».
Per fortuna, in ritardo, qualcosa si sta muovendo. «Sono in corso dei contatti con l' Iss» spiega, ma ci sono due problemi: «il primo è che Salute e Ricerca in Italia sono entità distinte che si pestano i piedi» e, il secondo, è che la sanità è regionale e non risponde sempre alle stesse regole. «Gli 81 casi di variante delta riscontrati in Lombardia ad esempio - conclude Pesole - sono stati comunicati ai giornali ma non alla comunità scientifica. Nei database internazionali sono solo 7. Ma in questa battaglia senza condivisione dei dati e sequenziamento siamo più indifesi».
Varianti Italia impreparata "Pochi tracciatori e tamponi"
Le Regioni non riescono a dare la caccia alla mutazione Delta del virus Pochi i laboratori impegnati. Cartebellotta: sottostimati i nuovi contagi
Paolo Russo per "la Stampa"
La variante "indiana", ribattezzata Delta, spaventa il Regno Unito, diventa prevalente anche negli Usa mentre da noi è sbarcata già ma quanto sia diffusa nessuno sa dirlo. I dati ufficiali parlano appena dell' 1% ma quasi tutti i virologi pensano che il dato sia sottostimato.
Questo perché l' Italia è impreparata a dare la caccia alle varianti per tre buoni motivi. Primo: sequenziamo appena l' 1% del virus in circolazione e lo facciamo solo in un giorno dato, una volta al mese. Questo perché si va ancora avanti grazie alla buona volontà dei laboratori pubblici sparsi un po' in tutte le regioni, che questo lavoro lo fanno gratis e in aggiunta alle loro altre numerose attività.
La neo direttrice del dipartimento malattie infettive dell' Iss, Teresa Palamara, ha annunciato più di dieci giorni fa la nascita di una rete di laboratori per la caccia alle varianti regolarmente finanziata dallo Stato, ma si è ancora in attesa del parto.
Secondo motivo: facciamo sempre meno tamponi. Forse perché -come sospetta il Presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta - le regioni hanno poco interesse a scoprire nuovi contagi, visto che dal numero di questi dipende l' ingresso o meno nella fascia bianca dove tutto o quasi riapre. «La costante diminuzione dell' attività di testing da un lato fa sottostimare il numero dei nuovi contagi e dall' altro ribadisce la rinuncia al tracciamento dei contatti, proprio ora che la ridotta incidenza dei casi ne permetterebbe la ripresa», sottolinea Cartabellotta.
Che nelle 4 settimane passate ha rilevato una diminuzione del 28,3% delle persone testate. Come al solito con grandi differenze regionali, perché dalle 239 persone ogni 100mila abitanti testate ogni giorno nel Lazio si passa alle sole 64 della Puglia. Ed è chiaro che se non cerchiamo il virus nemmeno possiamo poi pretendere di sapere in che misura realmente circolino le varianti nel nostro Paese.
Terzo fattore che rischia di farci trovare impreparati in caso di avanzata della variante Delta o qualsiasi altra mutazione insidiosa dovesse fare capolino è la carenza di cacciatori di virus. Gli addetti al contact tracing. In media ne abbiamo circa uno ogni 10mila abitanti, secondo uno standard fissato agli albori della pandemia, ma che nel corso delle varie ondate si è rivelato essere assolutamente insufficiente a spegnere i focolai sul nascere quando di virus ne circola molto.
Non è questo il nostro caso ora, con un' incidenza di 25 casi ogni 100mila abitanti, ma il boom di contagi in Gran Bretagna dovuto alla variante Delta dovrebbe insegnarci qualcosa.
Comunque anche in questo caso regione che vai situazione che trovi. In Alto Adige di cacciatori di virus ce ne sono 1,9 ogni 10mila residenti, in Toscana 1,6, in Piemonte 1,5. Ma in Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Umbria, Puglia e Sardegna, ossia più dimezza Italia, si è sotto l' unità, secondo i dati dell' Iss. A ottobre era stato fatto un bando per assumere duemila addetti al contact tracing, ma i tracciatori evidentemente sono finiti a fare altro.
Intanto sui numeri della variante Delta gli ultimi studi non sembrano parlare la stessa lingua. I dati della Public Healt England (Phe) dimostrerebbero che la variante Delta, sia pur maggiormente contagiosa del 60% rispetto alla già più infettiva "inglese", non bucherebbe più di tanto il vaccino di AstraZeneca, che con due dosi nel 92% dei casi eviterebbe il ricovero in ospedale.
Mentre rispetto ai sintomi meno gravi la protezione sarebbe del 74% rispetto alla mutazione Alpha, ossia "inglese", e del 64% quando ci si imbatte in quella Delta. Un altro studio pubblicato dalla prestigiosa rivista Lancet fornisce però percentuali un po' meno rassicuranti, pari a un 79% di protezione con il vaccino Pfizer e del 60% per quello di Oxford.
In entrambi i casi la copertura si abbassa del 13% rispetto alla variante Alpha. Resta il fatto che nella sola Inghilterra finora sono morte 42 persone per la mutazione Delta e di queste 12 avevano ricevuto il richiamo del vaccino da almeno 14 giorni. Non sono numeri da dover generare panico ma da attrezzarsi per tenere un po' più alta la guardia questo forse si.