Estratto dell’articolo di Nicola Borzi per il “Fatto quotidiano”
La furbesca narrazione del suo fondatore Adam Neumann l’aveva spacciata per un unicorno, uno dei colossi dell’economia digitale come Amazon, Google o Facebook, in grado di cambiare l’economia, rivoluzionare il loro settore e realizzare utili stratosferici. Così in nove anni WeWork da piccola azienda si era trasformata nel gigante degli spazi per coworking, gli uffici condivisi. Ma la società di New York non era un quadrupede mitologico, bensì un modesto asino da soma, sfiancato da una folle corsa alla crescita.
Dopo la pandemia e mesi di travagliate vicende societarie, lunedì scorso il corno di cartapesta è caduto e la multinazionale è andata in fallimento. Il settore però ha un futuro tutto da scoprire, anche in Italia e non solo nelle grandi città come Milano o Roma. L’epopea degli spazi di coworking è iniziata a San Francisco il 9 agosto 2005, quando il programmatore Brad Neuberg fondò il primo ufficio condiviso. […]
Fondata nel 2010 a New York da Miguel McKelvey e dallo stesso Neumann, con il supporto dell’immobiliarista di Brooklyn Joel Schreiber, WeWork aveva vissuto i primi nove anni con una crescita tumultuosa che da New York e poi San Francisco l’aveva portata ad avere 700 sedi e 900 mila postazioni in tutto il mondo.
L’8 gennaio 2019, dopo aver firmato un contratto di finanziamento da 6 miliardi di dollari con la giapponese SoftBank, la società si era trasformata nel network WeCompany. Ad aprile di quell’anno l’amministratore delegato Neumann aveva annunciato la decisione di quotare la società in estate, mentre la valutazione saliva alla somma iperbolica di 47 miliardi e il valore di collocamento era ipotizzato intorno ai 100.
Ma il 24 settembre 2019, dopo l’abbandono del progetto di quotazione, Neumann lasciava la carica di ad, travolto da polemiche sui suoi conflitti di interessi (comprava edifici in proprio e li riaffittava a WeWork) e sul suo consumo di droghe, ma coperto di soldi: aveva incassato 700 milioni di dollari in stock option prima della fallita Ipo.
A ottobre SoftBank rilevava WeWork (alla quale ha prestato in tutto 18 miliardi), pagando Neumann mezzo miliardo per allontanarlo. Di sicuro il manager è caduto in piedi: a maggio Forbes ha stimato in 2,2 miliardi il suo patrimonio personale. A ottobre 2021 la società è riuscita a quotarsi a New York solo a un quinto della sua vecchia valutazione, pari comunque a circa 10 miliardi di dollari, con la previsione di generare entro il 2024 almeno 2 miliardi di utile operativo: obiettivo mai raggiunto.
Così lunedì, dopo anni di difficoltà e di piani di rilancio andati a vuoto, è andata in fallimento. A farla saltare sono stati 13 miliardi ormai insostenibili di contratti di locazione fissi a lungo termine, nonostante avesse già rinegoziato 590 contratti per 12 miliardi.
Ora We Work vuol chiudere 69 spazi negli Usa e Canada, 40 dei quali solo a New York.
“La grande ironia della bancarotta di WeWork è che arriva proprio nel momento in cui il settore registra performance record. Il fallimento non è dovuto a mancanza di domanda quanto al suo modello di business”, ha dichiarato al Financial Times Jamie Hodari, ad di Industrious, una impresa concorrente.
In effetti già ad agosto 2019 la Harvard Business Review spiegava che WeWork non è mai stata un unicorno: era una società immobiliare mal gestita, ossessionata dalla crescita, disattenta ai rischi di lungo periodo e con costi dissennati, superiori ai ricavi stessi, quando già le aziende consolidate del settore, tra affitti, utenze, manutenzione e servizi, hanno spese elevate e risicati margini di profitto. Tant’è che WeWork non ha mai realizzato utili.
Poi nel 2020 la pandemia ha fatto scattare i lockdown e l’azienda ha ricevuto un colpo devastante, come quasi tutte le imprese degli uffici. Il Covid ha introdotto mutamenti radicali, con gli impiegati e i lavoratori della conoscenza sempre più propensi al lavoro da casa, che hanno colpito in modo permanente il mercato. […]