1 - L'AUTOMOTIVE IN ALLARME "IN ITALIA SONO A RISCHIO 70 MILA POSTI DI LAVORO"
Paolo Griseri per “la Stampa”
POSTI DI LAVORO A RISCHIO CON IL DIVIETO DI VENDITA DELLE AUTO A BENZINA E DIESEL
Se per costruire un motore termico sono necessarie 100 persone, per realizzarne uno elettrico ne bastano 25. I tre quarti degli attuali addetti diventano inutili. Questo non vale solo per il montaggio finale dei propulsori: si ripercuote sull'intera filiera della produzione dei motori, con esiti socialmente devastanti.
Particolarmente in Italia dove gran parte dell'industria dell'automotive è rappresentata dalla componentistica, che lavora non solo per gli stabilimenti Stellantis ma anche per molti costruttori tedeschi e francesi.
Il nodo da sciogliere dopo il voto di ieri a Strasburgo è tutto in queste poche cifre. I costruttori parlano di 70 mila posti di lavoro a rischio in Italia. Hanno ovviamente un punto di vista di parte ma è certo che rischiano il posto decine di migliaia di persone. Perché, come disse un anno fa il ministro Cingolani a questo giornale, «la transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue».
Se questa è la posta in gioco, la discussione che ieri ha animato i politici italiani al Parlamento europeo appare piuttosto lunare. L'emendamento del Ppe che proponeva di salvaguardare una quota del 10 per cento di motori termici da produrre dopo il 2035 non era certo, come si è detto, un favore ai costruttori delle auto di lusso, ma il tentativo, non riuscito, di allontanare nel tempo il blocco della produzione dei motori termici.
FABBISOGNO DI POSTI DI LAVORO A PARITA DI MOTORI PRODOTTI
Almeno in parte. Perché se si applicherà alla lettera il testo uscito ieri da Strasburgo, nel 2035 non sarà possibile produrre alcun motore termico: non quelli a benzina, non quelli a gas, non quelli diesel e neppure quelli ibridi che oggi vanno per la maggiore. A meno che entro quella data non si realizzi una tecnologia a idrogeno che oggi non appare pronta, le auto che usciranno dalle linee di montaggio tra 13 anni saranno solo elettriche.
Quella di ieri non è una clamorosa novità. È una decisione annunciata da anni che l'industria dell'auto non ha saputo o voluto contrastare anche perché sotto schiaffo dopo lo scandalo dieselgate. Così si arriva oggi a dover fronteggiare in poco tempo le conseguenze di una scelta drastica. E tocca alla politica decidere. Il 28 giugno il consiglio dei ministri dell'ambiente dell'Ue dovrà stabilire se accettare la proposta del Parlamento o se suggerire modifiche. A fine anno si dovrà trovare una mediazione tra i punti di vista della Commissione, del Parlamento e dei ministri.
ursula von der leyen con Frans TIMMERMANS e greta
L'obiettivo di arrivare ad azzerare le emissioni nocive delle auto è uno dei punti di orgoglio dell'Europa e non avrebbe senso metterlo in discussione.
Come sempre il nodo è come arrivarci, con quali tempi e con quali investimenti. Questo deve decidere la politica europea nelle prossime settimane e poi nei mesi successivi. La politica non è una serie di enunciazioni di principio.
Per quelle bastano i social e i talk show. La politica è la capacità di risolvere i problemi. In questo caso i problemi economici, industriali, sociali che un'affermazione di principio pienamente sottoscrivibile comporta. In quali tempi l'Europa è in grado di garantire che sarà possibile acquistare un'auto elettrica a prezzi abbordabili e rifornirla non solo nei centri cittadini ma anche nelle periferie e nelle campagne?
Con quali tempi l'Europa prevede di trovare un'alternativa occupazionale a centinaia di migliaia di persone che inevitabilmente perderanno l'attuale posto di lavoro? Come pensa l'Europa di convincere i costruttori a rimanere in questo continente, anche quelli che continueranno a produrre motori termici per gli Usa, il Sudamerica o l'Africa? Queste non sono domande provocatorie: sono i problemi che i politici europei, quelli di oggi e quelli dei prossimi anni, dovranno risolvere, comunque.
Il voto del Parlamento europeo di ieri segna dunque una svolta perché mette tutti di fronte alle loro responsabilità. I tempi degli investimenti nel settore automotive sono tali da rendere impensabile perdere altro tempo con la speranza di cambiare idea tra qualche anno, magari dopo le elezioni del 2024 con una diversa maggioranza a guidare l'Unione. Il momento di decidere è ora e spetta ai governi esprimersi nella riunione del 28 giugno. I costruttori hanno già speso miliardi nelle piattaforme per le auto elettriche e più passa il tempo più quella scelta, con tutte le sue conseguenze, diventerà irreversibile.
2 - MA PER ADESSO L'ELETTRICO RESTA UN LUSSO PER POCHI
Andrea Bassi Luca Cifoni per “il Messaggero”
Cambia la vita degli automobilisti, che poi sono la gran parte dei cittadini, mentre si addensa l'incertezza su quella dei lavoratori di un settore che ha rappresentato finora un'eccellenza italiana. Il voto del Parlamento europeo che conferma al 2035 l'addio ai motori diesel e benzina impone di accelerare una transizione ecologica di cui l'Europa si sente capofila, ma che è per molti aspetti ancora problematica, in particolare nel nostro Paese. Mentre il rinvio in commissione della riforma Ets (Emission trading scheme, il sistema che regola i permessi per inquinare) allontana per il momento una possibile stretta sul settore industriale, che nell'ipotesi più estrema messa a punto all'Europarlamento avrebbe dovuto fare i conti con un obbligo parecchio allargato di acquistare i permessi, una volta terminata la fase transitoria di gratuità.
I tredici anni che ci separano dal 2035 sono solo un uno in più rispetto all'attuale età media del parco auto italiano: la conferma di un orizzonte temporale ristretto rappresenta nelle speranza di chi è favorevole alla svolta una spinta a moltiplicare gli sforzi. Ma le criticità sono abbastanza evidenti e a questo punto la politica dovrebbe decidere di affrontarle con decisione.
Naturalmente nei prossimi anni si acquisteranno ancora molte macchine con motore a combustione, per un motivo abbastanza semplice: quelle completamente elettriche risultano tuttora più costose e non possono essere usate con la stessa flessibilità di quelle tradizionali, per i problemi di autonomia (nonostante i recenti progressi) e per la connessa assenza di una rete di colonnine.
Può darsi che il prezzo delle vetture tradizionali vada gradualmente a ridursi, di certo chi le sceglie ancora dovrà sapere qualcosa che è destinato a perdere rapidamente valore.
GLI IMPATTI
La svalutazione dell'attuale usato è fuori discussione. Certo non saranno decisivi gli incentivi oggi in campo, anzi il governo dovrà fare i conti con l'esigenza di dirottare risorse cospicue verso la riconversione di una filiera che in molte sue parti semplicemente non avrà più senso, vista la maggior semplicità dei veicoli elettrici. In Italia, secondo stime dell'Anfia (associazione nazionale filiera industria automobilistica) i posti a rischio sono più di 70 mila.
Il nodo non è solo l'obiettivo finale del 2035 ma anche le stringenti scadenze intermedie, che prescrivono una riduzione del 20% delle emissioni già dal 2025; una delle possibilità è quella di puntare sui servizi che sempre di più - grazie alla tecnologia - circondano il mondo dell'auto e la mobilità. Mentre resta minima la rilevanza del nostro Paese nel settore delle batterie.
Il sì alla proposta sullo stop a diesel e benzina ha fatto in qualche modo passare in secondo piano la bocciatura - pur se provvisoria - di quelle sulla riforma del sistema Ets, sul meccanismo di carbon tax e sul fondo sociale per il clima. Nel primo caso l'entrata in vigore delle novità slitta come minimo di qualche mese, con relativo sollievo delle imprese che avrebbero dovuto mettere mano al portafogli.
Tra le conseguenze collaterali c'è anche il definitivo tramonto del progetto di tassa sulle caldaie, ovvero di far pagare in qualche misura anche agli utenti il ricorso al metano per il riscaldamento. Lo stop al fondo sociale paradossalmente sconcerta chi puntava su un forte investimento di risorse europee su quella che alla fine è la sfida per tutti: fare in modo che contro un obiettivo ambizioso per l'intero pianeta non si rivoltino le categorie sociali più deboli, per definizione più esposte ai costi della transizione.