Massimo Russo per “la Stampa”
Le parole che ricorrono più spesso nelle frasi di Marino Golinelli sono domani e futuro. Insolito per una persona di 95 anni. Giacca alla coreana, fazzoletto rosa, quest’industriale farmaceutico, fondatore di un gruppo che fattura 900 milioni con quasi tremila dipendenti, è una sfida ai luoghi comuni.
Pochi avrebbero potuto immaginare che il figlio di un contadino, uno che nel dopoguerra comprava lo zucchero al mercato nero per confezionare sciroppi e poi li portava alle farmacie in bici cercando di non far cadere la damigiana, quasi 70 anni dopo sarebbe stato qui.
Siamo in un ufficio vetrato nella zona industriale di Bologna, sospeso sopra l’opificio Golinelli, un laboratorio della conoscenza di novemila metri quadri, che da oggi sarà pieno di ragazzi. Il luogo scelto da questo imprenditore per restituire la fortuna ricevuta, con un investimento di oltre 80 milioni di euro.
Golinelli, perché tutto questo?
«Per fornire ai giovani dai 18 mesi ai 35 anni strumenti per la conoscenza. Vogliamo prepararli alla società che noi non possiamo neppure intuire».
Avete chiamato questa sede opificio, un nome che sa di passato, di manualità.
«La dimensione del fare è fondamentale per capire. Partiamo dal passato per immaginare il futuro. Tutte le domande della cultura, in ogni tempo, alla fine si misurano con un perché. Perché facciamo, perché siamo a questo mondo?»
Già, perché?
«Siamo qui per formare le persone che costruiranno il rinascimento del Paese. Cosa posso fare per restituire alla società quel che ho avuto?»
Come mai questa domanda?
«Ho avuto la fortuna di avvicinarmi al mondo della scienza. Ero un ragazzo amorfo, non di particolare intelligenza a livello scolastico. Per caso a 16 anni ho trovato un libro sulla teoria atomica di Niels Bohr. Da qui è nata la mia passione, l’impresa. Credo che queste potenzialità le abbiano tutti i ragazzi. Credo nell’uomo».
È religioso?
«Sono un evoluzionista, penso finiremo per essere pietra. Ma questo aumenta la nostra responsabilità di lasciare come testamento qualcosa per gli altri. La creatività è in tutti, va liberata e fatta crescere attraverso la preparazione. Quel che noi lasciamo segnerà l’evoluzione culturale. Ripeto: ho fiducia nell’uomo».
Come ha trovato questa fede laica?
«Oggi guardo la società che ho fondato, Alfa Wassermann, e vedo un’azienda internazionale. Ma molte volte ho rischiato di fallire. Se ho continuato è perché credo. Mi ripeto spesso una frase: opera come se Dio ci fosse».
Oltre che di scienza, lei è appassionato d’arte.
«Molto. Vedo l’artista come un ricercatore della società, in questo non è diverso da uno scienziato. Anzi spesso l’estetica individua prima i bisogni del futuro. L’arte per me è un modo per capire il mondo. Ma non sono un collezionista, tantomeno un mecenate».
Non le piace la parola?
«Il mecenate è una persona che ha mezzi e fa cose molto belle, ma sempre donando, con un’idea di sussidiarietà, si tratti di un restauro o di un macchinario per un ospedale. Mi sento un filantropo, uno che ama l’uomo, crea, ragiona su un piano operativo, costruendo cose che resistano nel tempo. È per questo che è nata la fondazione Golinelli. Sono danari miei, non dell’azienda. Per rendere quel che ho ricevuto».
Nel nostro Paese non è comune.
«Infatti non vado d’accordo con i colleghi imprenditori».
Come mai?
«Pochi, forse il 10 o il 20 per cento, hanno il concetto della responsabilità sociale».
Invece stare in mezzo ai ragazzi le piace.
«È una bella energia passeggiare con loro. A volte si perdono per responsabilità dei genitori, che non sono culturalmente preparati. Ma ce ne sono moltissimi in gamba. Purtroppo viviamo in un ambiente corrotto. Il nostro è un Paese con poca cultura e molta corruzione».
Perché?
«Si pecca. Poi una misericordia, un pater, un’ave e un gloria, ed è tutto perdonato».
Ci frega la confessione?
«In qualche modo. E il benessere non sempre aiuta. Chi nasce povero ha una marcia in più».
A proposito di frugalità: è vero che non ha la macchina?
«Nemmeno la casa».
Cioè?
«Vivo in affitto. Avere case comporta solo gran confusioni ereditarie».
Ma i suoi figli hanno capito?
«Non è stato difficile spiegarglielo, conoscono le mie idee».
Cosa dice ai ragazzi che incontra per motivarli?
«Spesso scambiamo gli agi per diritti, scordiamo le responsabilità verso gli altri. Il mio modo per spronarli è stato far nascere tutto questo. Bisogna insegnare loro la passione, si tratti di correre in bici o di fare impresa. Abituarli a cercare la propria luce».
Segue ancora l’azienda?
«Certo (e mostra la trimestrale ndr)».
Che rapporto ha con la tecnologia?
«C’è il timore che schiacci l’uomo, ma non sarà così. Dico spesso una frase di papa Francesco: “Non abbiate paura”».
Francesco, Dio: la religione è una presenza continua.
«Non la religione, l’etica. Le religioni sono necessarie perché ancora la cultura non basta a far capire a un uomo di non aver paura della morte. Si parla così poco della morte, non la insegnano neppure agli studenti di medicina. E come possono curare bene i malati?»
Ha paura della morte?
«Un po’ sì, ma cerco di rimediare con un dovere: pensare a quel che lascio ai giovani. La formazione, la cultura.
Se ne avesse uno qui, ora, che precetto gli impartirebbe?
«Credi. E fai, come ho fatto io».