Teodoro Chiarelli per “La Stampa”
«Maiora premunt», urgono cose di maggiore importanza. In questa battuta, fatta qualche giorno fa al ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, c'è molto di Giuseppe Bono, scomparso ieri all'età di 78 anni, pochi mesi dopo essere stato sostituito al vertice di Fincantieri. Un regno durato 20 anni, ininterrottamente dal 2002: l'ultimo dei Boiardi di Stato. Un manager che, fra luci e ombre, ha avuto il merito di trasformare un'azienda agonizzante in una realtà multinazionale, con stabilimenti in Europa e negli Usa, emblema del made in Italy nelle crociere e costruttore di navi militari apprezzate nel mondo. Aveva una vera passione per l'industria: «Ci sono nato, le mani me le sono sporcate davvero.
Mica come quelli che non sono mai usciti dal salotto e un cantiere lo hanno visto solo al telegiornale. In fabbrica sono entrato a 18 anni. Da operaio, a Torino, a 1.300 chilometri da casa. Non avevo scelta: papà morì quando ero piccolo, e al nostro paese lavoro non ce n'era». Uomo concreto, Bono era poco interessato alla finanza. Ironico, tagliente, modi spicci, ma anche abile navigatore dei mari della politica, mai praticata, ma frequentata.
Dai tempi del suo mentore, il socialista calabrese Gaetano Mancini, cugino di Francesco Mancini, segretario del Psi prima di Bettino Craxi, senatore e poi a capo dell'Efim, dove Bono ottiene i primi incarichi di vertice nell'industria di Stato.
SERGIO MATTARELLA GIUSEPPE BONO
Un imprinting, quello socialista, che Bono non rinnegherà mai, pur essendo capace, nella sua carriera, di sopravvivere a governi di destra, centro, sinistra, grillini, rosso-verdi e tecnici, uscendo indenne da tangentopoli e saltando con disinvoltura dalla prima alla seconda Repubblica.
Con il fallimento dell'Efim, il terzo degli enti a Partecipazione Statale dopo Iri ed Eni, le sue attività industriali passano a Finmeccanica e Bono è nominato direttore generale. Poi diventa ad, ma in coabitazione con il presidente e ad Alberto Lina che ha quasi tutte le deleghe.
giuseppe bono ai tempi di finmeccanica
Morde il freno, si scontra con Lina, i contrasti fra i due diventano insanabili. Il premier Silvio Berlusconi caccia Lina, mette al vertice di Finmeccanica Pier Francesco Guarguaglini, ad di Fincantieri, e spedisce Bono a Trieste. Lui non la prende bene, pensa a un siluramento e forse ha ragione: Fincantieri va male.
Invece è la sua fortuna. Nato nel 1944 in Calabria a Pizzoni, quando Vibo Valentia non era ancora provincia, sposato, due figli, grande tifoso della Juventus («Come tanti terroni»), in tribuna a Cardiff a imprecare per l'ennesima Champions perduta, Bono nel 2002 inizia a studiare l'azienda e un mercato complicato. Riorganizza Fincantieri, ridefinisce le strategie e va a caccia di nuovi clienti. Stringe un patto di ferro con il presidente Corrado Antonini, amico di famiglia di Giulio Andreotti e delle moglie Livia, ma soprattutto di Micky Arison, proprietario del colosso delle crociere Carnival, che controlla Costa Crociere.
Il legame del gruppo di Miami con Fincantieri diventa strettissimo e l'azienda italiana diventa la numero uno al mondo nelle crociere. Una crescita che si estende al settore militare. Nel 2009 Bono mette piede negli States e acquisisce i cantieri Marinette. Nel 2014 porta l'azienda in Borsa, ma il suo sogno di creare un grande gruppo delle costruzioni navali europee andrà a cozzare con i protezionismi tedesco e francese e il veto della Ue. L'acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire viene stoppata. Resta la joint-venture militare con Naval Group.
Bono però non si ferma. Con WeBuild costruisce il ponte di Genova dopo il crollo del Morandi: un successo mondiale. E sempre con il gruppo Salini partecipa alla gara per la nuova diga di Genova. Poi pensa alla costruzione di ospedali. Una visione un po' troppo faraonica, tanto che il suo successore, Pierroberto Folgiero, si affretterà a dichiarare di voler riportare il gruppo al core business.
Quando il governo Draghi gli dà il benservito, non è contento, nonostante i 78 anni avrebbe voluto continuare. Si sfoga con L'Espresso: «Mi hanno chiamato e comunicato che il governo preferisce la discontinuità. Non ci sono cose che non vanno, o cose che vanno raddrizzate: la mia carriera era il problema. Non la posso cedere ad altri, purtroppo. Anzi ne vado fiero. Quando sono arrivato l'azienda era un disastro, era in vendita. Il governo non sapeva che farsene. Oggi ha un ottimo bilancio e 36 miliardi di ordini. Lascio questa dote e i miei migliori auguri».
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