Estratto dell’articolo di Eugenio Occorsio per “Affari & finanza - la Repubblica”
[…] A poche ore dal voto per quelle che sono chiamate «le più importanti elezioni americane della storia» e definite dal New York Times «la scelta fra la democrazia e l’imprevedibile», i manifesti elettorali sono chiusi con tutti i loro contrasti: sanità, immigrazione, Medio Oriente, diritti civili.
Su tutto c’è disaccordo, tranne che su un punto dei programmi economici: i dazi verso la Cina, accusata di invadere il mondo con prodotti in dumping frutto di ipertrofici sussidi pubblici. I due candidati evitano di ammettere di essere d’accordo, ma i fatti parlano: «La parola più bella del dizionario è “tariffe doganali” », ha detto Donald Trump giorni fa all’Economic Club di Chicago di fronte a una platea di uomini d’affari che hanno risposto con uno scrosciante applauso. «Bisogna in qualche modo difendersi da un’ondata di concorrenza sleale», ha ammesso a distanza Kamala Harris. […]
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Il problema è che secondo molti economisti la realtà è diversa, come documenta un crescente numero di studi. La guerra dei dazi con la Cina non porta nessun beneficio all’America, anzi solo danni: «Intanto non è vero che così si ricreano i posti di lavoro persi, viceversa solo da politiche commerciali aperte deriva un duraturo sviluppo per l’America e per il mondo», si legge nel più recente di questi report, datato Novembre 2024 e appena sfornato dall’Aspen Economic Strategy Group.
L’arma spuntata dei dazi tira in alto l’intera filiera dei prezzi sia al consumo che all’ingrosso, con effetti deleteri per l’inflazione. E metà delle merci cinesi interessate (parti elettroniche, prodotti in acciaio e alluminio, meccanica strumentale) riguarda semilavorati cinesi per produzioni Made in Usa, che quindi finiscono con il costare di più. Poi c’è l’ovvia incognita dei contro-dazi imposti dalla Cina. Se l’obiettivo era azzerare il deficit commerciale, questo è sceso nel decennio precedente ma ora ha ricominciato acrescere ampiamente.
Lo studio ammette che inizialmente un certo numero di posti in America è stato sacrificato per la concorrenza cinese, soprattutto nella fase d’oro per Pechino degli anni 1999-2011 quando si arrivarono a perdere fino a 90mila posti l’anno: «Ma questi numeri vanno confrontati con il dinamismo del mercato del lavoro negli Stati Uniti, dove in un solo mese cinque milioni di occupati si dimettono per trovare un nuovo posto di solito pagato meglio, di questi in media 350mila nella manifattura».
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GUERRA DEI DAZI TRA USA E CINA
Trump aprì la guerra commerciale con Pechino nel 2018 con dazi a raffica fra il 7 e il 40%, dalle lavatrici alle auto: «Già all’inizio del 2020, all’alba della crisi Covid, questa politica era costata agli Stati Uniti lo 0,3% di Pil», ricorda lo studio dell’Aspen, coordinato da Michael Strain, direttore dell’Economic Policy Studies all’American Enterprise Institute. I dazi di Trump arrivarono a coinvolgere 300 miliardi di acquisti americani dalla Cina.
Biden non ne ha revocato nessuno e anzi è andato ancora più in là, scandagliando le produzioni cinesi installate in Paesi terzi (dal Vietnam al Messico) per verificare il coefficiente di “made inChina”. Peraltro non è sceso l’ammontare di prodotti cinesi comprati dai consumatori americani e così Biden il 21 settembre, in pieno semestre bianco, ha annunciato l’aumento dal 25 al 100% dei dazi sulle auto elettriche cinesi, e poi dal 7,5 al 25% sui prodotti in acciaio e alluminio, il raddoppio al 50% per celle solari e microprocessori (compresi quelli delle batterie).
Nulla di esecutivo: spetterà eventualmente a Harris decidere. Ma se bisogna credere alle premesse la continuità con l’amministrazione precedente (di cui faceva parte) sembra garantita, così come Trump, se vincerà, potrà mantenere le sue focose promesse, con dazi immediati del 60% sulle auto e via procedendo.
Per uscire dalla trappola autodistruttiva, l’Aspen suggerisce di smetterla con l’ossessione cinese abbandonando i settori obsoleti («è inutile continuare a promettere di riportare indietro i posti persi per colpa della Cina») per concentrarsi su quanto di nuovo offrono in termini occupazionali le nuove tecnologie dove l’America gode di un innegabile primato.
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Con un’eccezione: i chip per le telecomunicazioni tipo Huawei o Hua Hong, che presentano rischi di sicurezza per la possibilità di essere “letti” da remoto e sono stati totalmente vietati da entrambe le precedenti amministrazioni. Su questo nessuno ha da ridire. [...]