Fabrizio Goria per “La Stampa”
«Contro l'inflazione energetica l'Europa doveva utilizzare più stimoli fiscali. E ora anche la Banca centrale europea è in difficoltà».
È tranchant nel suo giudizio Kenneth Rogoff, docente di Economia alla Harvard University e già capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi) e membro della Federal Reserve. Il quale non si aspetta che l'inflazione molli la sua presa nel breve: «Attendiamoci prezzi elevati per molto ».
L'inflazione continua a correre in Ue, siamo al 9,1% in agosto per l'eurozona. Cosa succede?
CHRISTINE LAGARDE JEROME POWELL
«L'Europa si trova in una situazione molto più difficile rispetto agli Stati Uniti. Questo perché non è indipendente dal punto di vista energetico. Gli Usa, essenzialmente, lo sono.
Quindi, l'Europa è trascinata al ribasso dalle fiammate dei prezzi del gas e del petrolio. Il tutto senza contare le altre conseguenze dell'invasione russa in Ucraina, come l'afflusso di rifugiati e la necessità di prestare attenzione alla capacità di difesa, un capitolo a lungo trascurato».
Quale ricetta per uscire da questa fase?
«Con la politica fiscale. Mi spiego: su questo fronte l'Europa non è stata estrema come invece lo sono stati gli Usa. Dovrebbe agire con questa leva».
E ora? Dobbiamo abituarci a un ritracciamento dei prezzi al rialzo?
«I dati lo dimostrano. L'inflazione è la più alta in quarant' anni negli Usa, in settanta anni in Germania. Direi dunque che è un problema ben rilevante, sebbene qualcuno lo minimizzi ancora.
Quasi certamente calerà nei prossimi sei mesi, salvo un forte peggioramento delle tensioni in Ucraina o Taiwan. Tuttavia, anche se il tasso d'inflazione si dimezzasse in modo relativamente rapido, sarà ancora il più alto in tre decenni o più e un ulteriore declino potrà solo essere lento».
La Bce è pronta ad agire di nuovo a settembre.
«Sì, ma la Bce probabilmente finirà, per forza di cose, per non alzare tanto i tassi d'interesse come fatto dalla Federal Reserve. È evidente però che dovrà agire abbastanza da portare il tasso principale intorno al 2% nei prossimi 12/18 mesi. Ma poi c'è il problema più grande».
Quale?
«Cosa fare del Qe (ovvero l'Asset purchase programme, da circa 3.300 miliardi di euro, ndr). Che è da un lato uno strumento necessario per sostenere il debito pubblico dell'Italia e degli altri Paesi del Sud Europa, ma che è fondamentalmente una politica espansiva, proprio quando invece Francoforte sta cercando di restringere».
Se n'è accorta anche la Fed, che l'inflazione non è più "temporanea".
«Il discorso di Powell da Jackson Hole è una virata di 180 gradi dal suo discorso "transitorio" di un anno fa. Sta cercando di inviare un segnale che riporterà l'inflazione al 2% entro un anno o due, qualunque sia la recessione. Capisco che voleva ripristinare la credibilità della Fed, ma se lo significa davvero, questa è una reazione eccessiva».
Come mai?
«Sia l'amministrazione Biden sia la Fed hanno lasciato correre l'inflazione per troppo tempo, e le loro politiche l'hanno resa molto peggiore».
Solo questo?
«Certo che no. Parte delle dinamiche odierne derivano da shock avversi dell'offerta globale che rallentano la crescita e aumentano i prezzi. La risposta giusta è intermedia: non bisogna concentrarsi solo sull'inflazione».
Guardando ai prossimi anni, come vede le dinamiche dei prezzi?
«A lungo termine, la deglobalizzazione, un ciclo demografico avverso in Cina, le pressioni populistiche sulla politica fiscale e l'indipendenza delle banche centrali sono i probabili fattori che porteranno a mantenere l'inflazione nel prossimo decennio a un livello molto superiore rispetto a quanto osservato nell'ultimo».
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