Edoardo de Biasi per “L'Economia del Corriere della Sera”
Il governo Draghi ha ridato all'Italia la credibilità che aveva perso negli ultimi vent' anni. La luce in fondo al tunnel è ancora distante ma alcuni passi importanti sono stati fatti. Dalla palude della politica locale si è passati a una strategia internazionale.
E questo agevola il salto di qualità che necessita al Paese. Un altro passaggio cruciale, sul versante attendibilità, sarà la gestione del caso Monte Paschi. L'Europa chiede un passo indietro dello Stato italiano ed è giusto che sia così. Anche perché il mondo del credito sta cambiando in modo impressionante. E non si può continuare a guardare al passato.
C'è stato un tempo nel quale l'istituto era diventato a livello consolidato, forse, la prima banca italiana. Poi è arrivata la politica, gli errori di strategia, le vicende giudiziarie e la nazionalizzazione. Insomma, un grande patrimonio mal gestito, diventato un grande problema. Anche per il governo Draghi. In queste settimane il dossier è tornato caldo. Da maggio il Tesoro (primo azionista al 64%) ha impresso un'accelerazione al processo di exit anche perché Bce ha acceso un faro sul capital plan.
In base alle ipotesi circolate, la banca avrebbe programmato una manovra in due fasi. La prima potrebbe essere l'emissione di un bond dall'importo di oltre 500 milioni. La seconda un aumento di capitale di almeno 1,5 miliardi in cui ovviamente il Tesoro dovrebbe giocare un ruolo decisivo.
Il governo, infatti, potrebbe ricorrere all'articolo 32 della direttiva Brrd (Bank recovery and resolution directive) che rende possibile l'iniezione di fondi pubblici nelle banche per far fronte a carenze di capitale emerse a seguito di uno stress test. In questo particolare caso, l'intervento non attiverebbe la procedura di risoluzione visto che non sarebbe un definitivo vantaggio per l'istituto.
Ipotizzare che la situazione possa andare avanti a lungo non è però possibile. La roadmap della privatizzazione dovrebbe essere definita entro luglio, quando sono attesi gli esiti degli stress test Eba.
La strada maestra per il Tesoro (assistito da BofA Merrill Lynch e dallo studio Orrick) potrebbe articolarsi in due fasi distinte. In un primo momento il governo passerebbe in blocco la quota a un soggetto privato che, in un secondo tempo, cederebbe sul mercato diversi asset per ottemperare alle richieste dell'Antitrust ma anche per rendere meno impegnativo l'oneroso acquisto. Insomma, come ha fatto Intesa Sanpaolo che, dopo l'acquisizione di Ubi, ha ceduto 650 sportelli a Bper per ottemperare agli impegni presi con l'Antitrust.
MASSIMO TONONI GIUSEPPE CASTAGNA
Più nel dettaglio, secondo alcune indiscrezioni, il Nord Est sarebbe nel radar del Banco Bpm, che sembra deciso a restare stand-alone (il ceo Giuseppe Castagna dovrebbe presto presentare il piano industriale), mentre Bper sarebbe disponibile a esaminare gli asset toscani. Medio Credito Centrale potrebbe, invece, farsi carico degli sportelli del Sud. Questo perché, tolto qualche politico locale, fatica a trovare sostenitori l'idea di un mini-Mps che, dopo la privatizzazione, si mantenga autonomo pur rinunciando a tutti gli asset fuori dalla Toscana. Nel frattempo, il fondo Apollo (unico soggetto in data room) avrebbe manifestato interesse per un ampio perimetro di attività, ma fonti vicine al Mef (il dossier è in mano al direttore generale Alessandro Rivera) hanno definito la proposta irricevibile.
In attesa che entri nel vivo il processo di cessione, altre novità potrebbero interessare la governance. Il timone è nelle mani di Guido Bastianini, scelto lo scorso anno grazie al decisivo appoggio del Movimento Cinque Stelle, in coabitazione con la presidente Patrizia Grieco. Il banchiere toscano non ha mai considerato la privatizzazione una priorità. Anzi, ha accarezzato l'idea di mantenere il Monte sotto la mano pubblica. Posizioni molto diverse rispetto a quelle dell'attuale Tesoro.
A tal punto che le voci di un avvicendamento si rincorrono. Ci sarebbe già il nome del possibile sostituto e il più gettonato sarebbe l'ex ceo di Ubi Victor Massiah su cui però pesa la richiesta di condanna da parte del tribunale di Bergamo. Altro nome quotato Riccardo Sora, anche lui di provenienza Ubi. E Luigi Lovaglio, ex Unicredit e Creval. Figure di livello, capaci di pilotare la banca nel delicato processo di privatizzazione.
Anche perché il Monte è la terza banca del Paese: 1.800 filiali, oltre 20mila dipendenti, 81 miliardi di depositi, 86 miliardi di prestiti e 150 miliardi di attività totali. I problemi di Mps sono iniziati nel 1996, anno di costituzione della Fondazione e sono accelerati quando l'ente ha assunto personalità giuridica privata senza fine di lucro. Dal 1996 al 2010, sono stati erogati in donazioni circa 1,6 miliardi, di cui 1,3 nella provincia di Siena. Che cosa vuol dire questo? Semplificando, che il primo decennio degli anni 2000 è stato utilizzato come strumento di controllo politico del territorio.
Ma visto che era un periodo di aggregazioni, non sono mancate neanche costose velleità espansionistiche culminate con l'acquisizione dell'Antonveneta. Va comunque ricordato che, sempre in quel periodo, la Fondazione cercò un matrimonio internazionale con la spagnola Bbva che fallì proprio per la miopia della politica senese. Dal 2008, l'esplosione della crisi finanziaria ha fatto capire che la festa era finita. Quindi si sono resi necessari due aumenti di capitale: cinque miliardi nel 2014 e tre miliardi nel 2015. La Fondazione ha progressivamente ridotto la sua quota fino all'azzeramento. Non solo. In questa fase sono poi cominciati a emergere gli scandali sui derivati e sui prestiti erogati senza criterio.
Il Monte rappresenta però un bene pubblico ed è banco di prova della credibilità e della tenuta di un sistema Paese. Quindi, primi fra tutti, il ceo Andrea Orcel e il presidente Pier Carlo Padoan dovrebbero dire chiaramente quali siano le reali intenzioni di Unicredit. Al governo italiano e al mercato. Altri stati europei hanno risolto situazioni bancarie ben più complicate in modo rapido ed efficiente. Basta temporeggiare. Non va dimenticato che sommando gli aumenti di capitale, le obbligazioni non rimborsate e l'intervento di Amco, i risparmiatori e i contribuenti hanno versato nel Monte una cifra superiore ai 20 miliardi. Ma i guai non finiscono qui.
Il compratore di Mps potrebbe essere costretto a pagare un indennizzo di oltre un miliardo alla francese Axa. Ai tempi del salvataggio di Stato, la banca senese aveva rinegoziato il contratto pluriennale di bancassicurazione con la compagnia transalpina. Questo tipo di intesa prevede che in caso di cambio del controllo scatti una option a favore della compagnia.
Nel caso della joint venture con Mps, il cambio di proprietà farebbe scattare un put a favore di Axa che gli analisti stimano in un controvalore superiore al miliardo. Un altro extracosto, approvato dall'ex ceo Mps Marco Morelli (poi diventato presidente esecutivo di Axa investments manager). Certo sul tavolo del governo rimangono la dote fiscale (Dta) e le garanzie pubbliche sui rischi legali che ammontano complessivamente a circa dieci miliardi.
Che cosa accadrà? Dopo i preliminari contatti di Orcel il divario tra il prezzo offerto dal compratore e quello ipotizzato dallo Stato resta ampio. Da quello che trapela, UniCredit vorrebbe lo stesso trattamento che ottenne Intesa con la liquidazione delle banche venete (Pop Vicenza e Veneto Banca).
DANIELE FRANCO MARIO DRAGHI AL SENATO
Si parla di una proposta arrivata da piazza Gae Aulenti che i tecnici del Tesoro avrebbero ritenuto non accettabile. Quindi si sta valutando uno "spezzatino" a favore di più banche acquirenti. Un percorso ragionevole, ma difficilmente percorribile senza che un istituto faccia da pivot dell'operazione, acquistando in blocco e poi rivendendo rami d'azienda. Un'altra soluzione, che trova sempre maggiori consensi, è separare Mps in due parti. La bad bank resterebbe allo Stato e una good bank finirebbe sul mercato. Una strada che però richiede tempi lunghi. La Ue e, soprattutto Mario Draghi, vorranno avere pazienza?