Marcello Zacché per “il Giornale”
C'è un caso Nexi in Borsa, che coinvolge mercato e politica. Il crollo del titolo della società nota per i pos che utilizziamo pagando con carte o bancomat pesa sul portafoglio di grandi e piccoli soci. Nell'ultimo anno il titolo, che valeva più di 19 euro, si è dimezzato (ieri 8,8 euro). In termini di capitalizzazione la società ha perso 10 miliardi di valore.
Che si tratti di qualcosa che va al di là delle turbolenze che coinvolgono l'intero comparto finanziario lo ha messo nero su bianco Banca Mediolanum: nel comunicato della semestrale diffuso mercoledì scorso ha scritto che il calo dell'utile netto del periodo (da 268 a 237 milioni) è avvenuto «unicamente a causa del titolo Nexi detenuto nel portafoglio valutato al fair value».
In altri termini Mediolanum, che ha in portafoglio meno dell'1% di Nexi, ha svalutato il titolo ai prezzi correnti registrando un disavanzo contabile di circa 40 milioni. Per la banca dei Doris la quota in Nexi deriva dalla ventennale partecipazione in Sia, la società di tecnologia dei pagamenti incorporata da Nexi nel 2021.
Al momento della fusione Nexi-Sia, per Mediolanum quello storico minuscolo investimento registrava un valore record di oltre 70 milioni che però, rivisto un anno dopo, si è sbriciolato e non riflette più la realtà. Tanto da richiedere la svalutazione. Il segnale che arriva al mercato è di quelli forti, implicando una improbabile ripresa dei prezzi in tempi ragionevoli.
Ma cosa sta succedendo a Nexi? Secondo le fonti del Giornale le questioni sono due. La prima è il debito elevato, circa 5 miliardi, accumulato con le tante acquisizioni effettuate da Nexi a partire dal 2016 e scaricato nel consolidato dopo la fusione con Sia e con il gruppo nordico Nets.
La seconda è che avendo nel capitale tanti fondi di private equity (quelli che hanno partecipato alla crescita e alle fusioni di questi anni), essi restano potenziali grandi venditori. Così facendo rientrano con profitto dall'investimento: è quello che sta succedendo dalla quotazione post fusione del gennaio scorso.
Per cui, sul mercato, i possibili investitori istituzionali preferiscono aspettare una fase di stabilità (che ancora non si vede) prima di tornare a comprare titoli Nexi.
La società va bene, ha buoni fondamentali, rispetta i target, ma è superindebitata e quindi non paga dividendi (pur essendo stata Nexi molto generosa con i suoi soci prima del matrimonio con Sia) e con la crescita dei tassi sarà sempre peggio: prima di investire, anche a multipli oggi a buon mercato, i gestori vogliono certezze sulla fine della volatilità legate alle vendite.
Nel capitale di Nexi i fondi privati stranieri presenti sono Hellman & Friedman con il 19,9% (Usa); Mercury 9,4% (Uk); Eagle 6% (Usa); Ab Europa 4% (Lussemburgo); Gic Capital 2,1% (Singapore). Soci italiani sono Intesa, con il 5,1%, Poste con il 3,5% e soprattutto Cdp che, con il 13,5% è stata di fatto la regista dell'operazione Nexi-Sia. E rappresenta il coté politico della faccenda.
La grande Nexi è nata sotto le Cinque Stelle della gestione Fabrizio Palermo, l'ex ad di Cassa nominato con il governo Conte uno, nel luglio del 2018. Ed è in quello stesso clima politico che ha mosso le sue pedine l'attuale numero uno di Nexi Paolo Bertoluzzo, considerato vicino ai Casaleggio e all'ex ministro M5S Riccardo Fraccaro.
Bertoluzzo è l'artefice della trasformazione di Carta Sì in Nexi, poi della quotazione in Borsa, in seguito alla quale ha incassato 43 milioni per effetto della conversione di warrant, risultando il manager più pagato del 2020. E infine è stato il driver della fusione con Sia, attraverso la quale ha ottenuto la blindatura al vertice fino al 2025.
Secondo indiscrezioni, in luglio Bertoluzzo è stato chiamato dal capo di Cdp, Dario Scannapieco, per avere lumi sull'andamento di Nexi in Borsa. Anche se per Cassa i problemi sull'equity sono ben altri (vedi Ansaldo o Saipem). Ma questa è un'altra storia.
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