Martin Scholz per ''Die Welt'', traduzione di Emilia Benghi per ''la Repubblica''
L'uomo con i dreadlock (un tipo di treccine di capelli ottenute annodandoli in modi ripetuti e diversi, ndr) denuncia da anni le pecche del mondo digitale, dal rischio di finire oggetto di un controllo globale, alle conseguenze disastrose della cultura della gratuità. Molte delle sue previsioni si sono avverate. La fama di massimo esponente di un’avanguardia critica nei confronti dell’Information Technology di cui gode il pioniere americano della “realtà virtuale” è anche legata alla sua esperienza diretta maturata nella Silicon Valley. Jaron Lanier lavora tuttora come sviluppatore a Microsoft, ma continua a scrivere libri sui poteri occulti di Internet, vincendo premi letterari. Il suo ultimo saggio riesce a essere più diretto e provocatorio dei precedenti. Si intitola Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (ed. Il Saggiatore) ed è stato scritto prima delloscandalo di abuso di dati di Facebook, che Lanier — e ciò non sorprende — aveva già previsto. Non a caso, di recente il New York Times lo ha definito un «oracolo».
Signor Lanier, il “ceo” di Facebook, Mark Zuckerberg, nella sua audizione al Parlamento europeo dopo lo scandalo dati ha per lo più aggirato le domande.
«Mi ha molto stupito che le domande siano state poste in sequenza, senza incalzarlo. Così Zuckerberg ha detto solo quello che voleva.
Ciò mi fa sorridere: Facebook e i servizi che controlla, come WhatsApp, Instagram e Messenger, sono in grado di monitorare e manipolare ogni singolo individuo».
Zuckerberg ha ribadito che Facebook non esercita un monopolio e che a suo avviso grazie allo sviluppo dell’intelligenza artificiale si argineranno gli episodi di manipolazione o istigazione all’odio. Lei ci crede?
«Ovviamente no. Nella Silicon Valley tutti, ma proprio tutti, sanno che è una balla. Non penso che ci sia qualcuno che creda a una sola parola di quello che ha detto Zuckerberg. Neppure in Facebook».
Dopo lo scandalo lei sostiene la necessità di cambiare il modello imprenditoriale di Facebook: eliminare la pubblicità e introdurre il servizio a pagamento, un po’ come fa Netflix (una piattaforma video che distribuisce online contenuti come film, serie tv e intrattenimento, ndr).
«Io non sono contro la pubblicità in generale, ma contro quella mirata al singolo, basata sui dati dell’utente raccolti non da ultimo a scopi manipolatori, come fa Facebook. In questo modo si esercita un influsso enorme sul comportamento degli utenti, spianando la strada ai personaggi più infami, che puntano a distruggere la nostra società, e con questo non mi riferisco solo a certe piattaforme russe che hanno influenzato la campagna elettorale americana.
A peggiorare le cose interviene il fatto che in questo sistema gli stati d’animo negativi come paura, paranoia, invidia e odio si diffondono più rapidamente rispetto ai positivi. L’odio è uno strumento più efficace quando si tratta di manipolare gli individui con l’ausilio di algoritmi. A rendere possibile tutto ciò è il modello imprenditoriale economico di Facebook. È questo il problema centrale. L’idea di finanziare Internet attraverso la modificazione comportamentale è nata in questo secolo. È stato un grosso errore, che va corretto (sospira). Ma è difficile riuscirci. Un passo importante è fare appello diretto alle grandi aziende tecnologiche perché cambino le cose».
Non è troppo idealista affidarsi alla speranza?
«Assolutamente no. Da un anno e mezzo a questa parte un numero sempre maggiore di sviluppatori e di ex dirigenti della Silicon Valley si sono espressi in termini molto critici riguardo a quello che hanno creato. E non hanno timore di esprimersi pubblicamente in termini critici. Qualche anno fa non era così. Oggi non sono più solo. È una bella sensazione».
Lei è tuttora un dipendente Microsoft. Questo non crea un conflitto di interessi?
«No. Ho sempre detto apertamente che non parlo a nome di Microsoft. Ho un accordo con l’azienda che tutela la mia libertà accademica. Ma in questo contesto voglio chiarire che soltanto Google e Facebook manipolano i comportamenti nella misura che ho descritto.
Ciò non vale per Apple, Amazon e Microsoft. Dei colossi della tecnologia dell’informazione, Google e Facebook sono gli unici che non sono riusciti a diversificare le strategie per trarre profitti dalla Rete. Ora dipendono totalmente da questo modello di manipolazione — proprio come i loro utenti. Non credo che in Google e Facebook operino malvagi intenzionati a distruggere la nostra società. Li conosco, non sono così. Ma hanno commesso un errore spaventoso».
Nel suo nuovo libro scrive che la paura e l’odio sono il miglior carburante dei social network e indica senza mezzi termini i rischi che il persistere del sistema comporta per la sopravvivenza della specie e della democrazia. Non solo: sostiene che i social network tirano fuori il peggio di noi, distorcono la realtà, minano la nostra capacità di empatia.
«Sì, i social media tirano fuori il peggio di noi. E ho tralasciato molti temi scottanti attinenti a quest’ambito, per esempio il cosiddetto “Revenge Porn” (cioè diffondere video privati a sfondo sessuale girati insieme al partner per “vendicarsi” di quest’ultimo, ndr). Non può andare avanti cosi. Perciò esorto a cancellare gli account social. Si può vivere senza questa schifezza che distrugge la società. Cancellarsi dai social è l’unico modo per scoprire che cosa possa sostituire questo grandioso progetto fallito. Ma capisco perfettamente che non tutti possono farlo.
Ovviamente non voglio che le persone si rovinino per protestare contro Facebook: se è professionalmente indispensabile che mantengano un account Facebook, Twitter o Instagram, ben venga, ma li invito a moltiplicare gli sforzi per ridurne i danni. Chi però può permettersi di cancellare l’account ha, a mio avviso, l’obbligo morale di farlo. Con Facebook e Google è come pagare il pizzo al crimine organizzato. Ma il fatto che esercitino un controllo monopolistico sull’attenzione e la comunicazione tra le persone non significa che non si possano contrastare».
A sentir lei Facebook, Instagram e WhatsApp equivarrebbero all’eroina digitale. Smettere non fa andare in crisi di astinenza?
«Sì, temo sia così. La reazione dopaminergica, l’adrenalina che scatenano in noi i like e i commenti ai post sono frutto di tecniche appositamente utilizzate dai social per creare dipendenza. Per uscirne bisogna combatterla».
Il nuovo Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali (General Data Protection Regulation, Gdpr) è utile a tal proposito?
«È un buon inizio, forse un po’ disorientante. Il Gdpr si limita però alla tutela della sfera privata, non entra nel merito della manipolazione e della dipendenza create influenzando il comportamento attraverso gli algoritmi. La pubblicità personalizzata è solo una componente del sistema di “modificazione comportamentale” su Facebook. Tutto ciò che ha a che fare con la nostra navigazione online è progettato in modo da rendere l’utente sempre più dipendente».
Si dice che negli ultimi trent’anni lei abbia incontrato più volte Donald Trump…
UDIENZA DI ZUCKERBERG AL SENATO
«Sì».
Nota un cambiamento tra il Trump predigitale e l’odierno “presidente dei tweet”?
«Certo, vedo una differenza enorme, ma in negativo. A New York ci sono molti personaggi come lui, tra lo spaccone, il falsario e lo showman. Nel caso di Trump, l’ho capito da subito: è del tutto inaffidabile, uno che rideva sempre delle sue battute. Da quando si è candidato, ha sviluppato una dipendenza nei confronti dei social media, il mondo ne è stato testimone. Trump è drogato di Twitter. E questa dipendenza per qualche strano motivo ha minato la sua sicurezza. Pur avendo un grande potere mostra una strana insicurezza. Si comporta come se fosse sempre oppresso. È il tipico comportamento indotto dalla dipendenza».
UDIENZA DI ZUCKERBERG AL SENATO
Come mai in Internet l’odio si spaccia meglio della speranza?
«Gli stati d’animo negativi sono più contagiosi è più duraturi. Quelli positivi impiegano più tempo ad attecchire e scemano più rapidamente. Ci vuole pochissimo per creare il panico e eccitare gli animi e molto invece per ritrovare la calma. Google e Facebook funzionano in base a un sistema di feedback rapidissimi. È questo che interessa ai loro clienti, agli inserzionisti: io li definisco semplicemente dei manipolatori. I post che diffondono stati d’animo negativi garantiscono un impatto maggiore, perché la reazione dell’utente è immediata e l’interesse più duraturo».
Molti ex colleghi della Silicon Valley la considerano un traditore.
«Alla fine mi ero quasi abituato a essere considerato un estremista. Ma oggi il vento è cambiato. Ormai nella Silicon Valley riscuoto un numero tale di consensi che temo di scadere nella banalità. Cerco di non fare il guru. Dico solo quello che penso».