Luca Gualtieri per “MF”
L'ultimo avvertimento è arrivato nei giorni scorsi: un decreto del Cremlino impedisce ai paesi cosiddetti ostili di vendere pacchetti azionari nei settori dell'energia e delle banche sino alla fine dell'anno, in risposta alle sanzioni arrivate da Ue, Uk e Usa. Non si tratta di una novità assoluta.
Già nel corso di luglio il governo russo aveva minacciato misure analoghe, agitando lo spettro della nazionalizzazione. In quell'occasione il vice ministro Alexei Moiseev aveva lanciato un appello alla finanza internazionale: «finché la situazione non migliorerà, non daremo l'autorizzazione alla vendita delle controllate di banche estere e dei loro asset in Russia».
Il nuovo decreto comunque non riguarda solo gli istituti di credito, ma anche lo strategico settore dell'energia. C'è peraltro chi ritiene che la misura sia stata definita appositamente per impedire l'uscita di Exxon dal progetto Sakhalin-1 che coinvolge anche la Rosneft oltre a società giapponesi e indiane.
Una lista dei gruppi coinvolti nel provvedimento dovrebbe comunque essere definita in tempi rapidi, a stretto contatto con la banca centrale guidata da Elvira Nabiullina. Il nuovo provvedimento non fa che complicare ulteriormente il quadro in cui da mesi si muovono alcune delle principali banche internazionali.
Non a caso quasi tutti gli istituti stranieri presenti in Russia per ora hanno continuato ad operare nel paese. L'unica eccezione è costituta da Société Générale che, subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ha venduto l'intera quota in Rosbank e delle filiali assicurative a Interros Capital, incassando una perdita di oltre tre miliardi.
Più cauta si è mostrata Citi, che pure già a marzo si era sbarazzata delle proprie attività di consumer banking nel Paese, ha per il momento deciso di mantenere la licenza bancaria. Proprio nei giorni scorsi, dopo l'annuncio del nuovo decreto del governo russo, la banca americana ha comunque confermato la volontà di ridurre le operazioni e l'esposizione verso il paese.
Va detto però che, se la exit rimane l'obiettivo principale dei grandi gruppi bancari, il primo semestre si è confermato meno catastrofico del previsto. Il rally del rublo ha permesso a gran parte degli istituti di realizzare risultati positivi dimostrando che, a determinate condizioni, il mercato russo può ancora essere remunerativo.
I profitti record che Unicredit ha riportato nel secondo trimestre dell'anno sono per esempio attribuibili per circa 400 milioni alla performance della valuta russa. Ovviamente è salito anche il valore delle attività che in qualche caso ha quasi bilanciato il lavoro di deleveraging.
Per esempio Citi ha da un lato ridotto gli asset di 3,1 miliardi di dollari, ma dall'altro lato ha visto lievitare il valore delle attività ancora in bilancio per 3,6 miliardi, con una plusvalenza di 500 milioni. Raiffeisen similmente ha tagliato l'esposizione verso Mosca del 22% ma ha visto crescere le attività di 3,1 miliardi di euro grazie al fatto che il rublo si è rafforzato del 40% sul dollaro e sull'euro nel secondo trimestre dell'anno.
In un quadro del genere sarebbe del tutto comprensibile se i tempi delle exit si allungassero, anche considerevolmente. Come detto del resto sinora solo SocGen ha fatto un passo indietro dal mercato russo.
All'insegna della prudenza si stanno muovendo quasi tutte le altre banche, a partire dalle italiane Unicredit e Intesa. Al vaglio della banca di piazza Gae Aulenti per esempio ci sarebbe un'uscita temporanea dal mercato russo con la possibilità di rientrare in possesso degli asset alla fine della crisi geopolitica in corso. L'obiettivo? Limitare le perdite nell'ambito di un'operazione che consentirebbe a Unicredit di non tagliare i ponti con Mosca.
L'operazione potrebbe essere strutturata come uno swap o un repo che scambi poste di attivo con controparti non sanzionate per neutralizzare il rischio su un arco temporale che potrebbe andare da qualche mese a un anno. Intesa per il momento continua a esplorare diverse opzioni, pur non avendo preso decisioni definitive.