Estratto dell'articolo di Carlo Tecce per “L'Espresso”
Eccoci, coraggio, stavolta davvero: è pronta la rete unica nazionale con Tim che torna allo Stato o forse non esattamente, comunque una rete unica telefonica, rame e fibra, cavetti e spinotti, soprattutto per le connessioni ultraveloci. Già letto ai tempi del liceo? Non vi preoccupate. Questo annuncio non scade mai […]
Adesso cosa c’è di nuovo, però, al punto da parlarne con tale insistenza: niente di speciale, soltanto che la vecchia Tim (o Telecom, se preferite) deve fermare l’agonia. Ha bisogno di denaro. Ha bisogno di futuro. Oggi capitalizza 5,8 miliardi di euro in Borsa, sette anni fa erano quasi 16.
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La cosa che c’è di nuovo è una grossa, e non è italiana: il governo di Giorgia Meloni, un governo di centrodestra di volenterosi patrioti, al momento (chissà quanto duraturo) è convinto che la rete unica nazionale passi per il fondo americano Kkr. Per ragioni di sopravvivenza di Tim. E anche geopolitiche.
Per capirci è opportuno liofilizzare una decina delle ultime diecimila puntate. Oggi il primo azionista di Tim, 50.392 dipendenti (di cui 9.395 in Brasile) e 21 miliardi di euro di debiti, è il gruppo francese Vivendi col 23,75 per cento, il secondo è lo Stato col 9,81 di Cassa depositi e prestiti.
La stessa Tim controlla col 58 per cento FiberCop, l’azienda che posa la fibra ottica. Lo scorporo in miniatura fra rete primaria (quella che arriva alla cabina) e rete secondaria (quella che arriva in casa) fu realizzato dall’ex amministratore delegato Luigi Gubitosi col contribuito necessario di Kkr, il fondo che detiene il 37,5 per cento di FiberCop, il restante 5,5 è di Fastweb.
Il rivale diretto di FiberCop è OpenFiber, azienda di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp Equity) con la sostanziosa quota del 40 per cento in mano al fondo australiano Macquarie che è subentrato a Enel. La concorrenza fra due società che fanno riferimento allo Stato, in parte o in tutto, ha impedito allo Stato di portare le connessioni ultraveloci nelle zone di provincia più isolate (meno redditizie) - il divario digitale si colma quando pure il comune più piccino ha uguali condizioni - e di immaginare una rete unica che fosse totalmente unica.
Oggi la tenzone riguarda le due offerte per le reti in rame e fibra di Tim e non i servizi commerciali, aziendali e il Brasile: c’è Macquarie col supporto pubblico di Cdp, c’è il fondo americano Kkr in solitaria. Entrambi hanno oscillato dai 19 ai 21 miliardi di euro e non soddisfano le richieste/pretese di Vivendi che sono fissate a 31 e potrebbero scendere a 26 circa.
La multinazionale guidata da Vincent Bolloré, detto requin (lo squalo), in sette anni ha assistito al deteriorarsi del valore di Tim e dunque del suo investimento: la perdita iscritta a bilancio è di 3,15 miliardi di euro. Kkr ha cominciato claudicante la gara Tim dopo la mai lanciata operazione di acquisto (Opa) in Borsa che prevedeva, per l’intero gruppo, 0,50 euro per azione, mentre il titolo fluttuava attorno alla metà, per una cifra complessiva di 11 miliardi di euro. Vivendi aveva comprato a 1,07 euro.
Rifiutata l’Opa “amichevole”, durante il governo di Mario Draghi che aveva incaricato l’ad Dario Scannapieco di Cdp di occuparsene, Kkr si è defilata, mimetizzata, per tornare nel duello per le reti. L’avvento di Fratelli d’Italia ha amplificato il patriottismo ed esasperato la ricerca di un modo per riassegnare Tim al patrio dominio. La missione ha coinvolto, a poteri incostanti, i sottosegretari Giovanbattista Fazzolari e per delega specifica Alessio Butti, il ministro Adolfo Urso (Industria), il capo di gabinetto Gaetano Caputi (Palazzo Chigi). E logicamente il ministro Giancarlo Giorgetti (Tesoro).
La presidenza del Consiglio ha pensato addirittura di utilizzare direttamente il ministero dell’Economia e non uno strumento pubblico e autonomo come Cdp o un fondo di risparmio. La proposta di Cassa Depositi e Prestiti con gli australiani di Macquarie era giudicata migliore di quella di Kkr nonostante fosse inferiore, ma ha insito il difetto di essere subordinata al vaglio dell’Antitrust per la sovrapposizione OpenFiber/FiberCop.
Il lungo mediare e riunirsi, oltre a far lievitare le parcelle dei consulenti, non ha condotto a nulla, se non all’ipotesi di rimozione dell’amministratore delegato Pietro Labriola, richiamato da Tim Brasile per risolvere, e in fretta, la traversia rete unica.
Per spingere il suo addio più in là, con dubbie possibilità di riuscita, Labriola ha concesso altre cinque settimane al fondo Kkr per ritoccare la sua offerta entro il nove giugno. In questo modo si scioglie la coppia Macquarie e Cdp. Vuol dire che gli americani potrebbero procurarsi un vantaggio determinante. Kkr vuole aggiungere 200 o 300 milioni di euro ai suoi 21 miliardi e lo fa consapevole non di persuadere Vivendi, ma di ottenere - con quasi due anni di ritardo - una trattativa in esclusiva.
Per comprendere il senso dei 21 miliardi, il disegno di Kkr va sminuzzato: 8 miliardi vanno a ridurre il debito, 2 scattano se si verificano precise situazioni, 1 abbondante è il prezzo di Sparkle con i suoi preziosi 600.000 km di cavi sottomarini che attraversano l’oceano Atlantico, il mare Mediterraneo e sui quali scorre l’80 per cento del traffico internet di Israele. L’aspetto più eclatante è che Kkr valuta FiberCop 12 miliardi di euro inclusi 3 di investimenti, quasi il doppio di Cdp-Macquarie, così da valorizzare il suo 37,5 per cento pagato 1,8 miliardi di euro neanche due anni fa.
L’altra piaga sono i posti di lavoro: la società rete unica dovrebbe prendersi in carico 15.000 dipendenti su 50.000 abbondanti, 7.000 o al massimo 8.000 sono destinati al segmento commerciale, 4/5.000 a regime a quello pubblica amministrazione/aziendale. La società commerciale, che deve rivaleggiare con soggetti snelli come Iliad, Vodafone, Wind/Tre, si terrà una porzione del debito e non potrà partire imbrigliata. Già utilizzati in maniera massiccia i pensionamenti anticipati e già previste 2.000 uscite volontarie quest’anno, ci sono 20.000 esuberi. Un’enormità.
La scelta di Labriola sugli americani, che nel breve periodo si prendono le reti affiancati da un’entità pubblica e poi nel medio/lungo la cedono dopo aver guadagnato, riflette i mutati equilibri del governo.
Eclissati per svariati motivi Butti, Urso e Fazzolari, oggi su Tim incide parecchio Caputi, capo di gabinetto alla presidenza del Consiglio, lo scorso governo al Turismo, ex direttore generale di Consob e, particolare fondamentale, proveniente dalla covata di Vincenzo Fortunato al Tesoro, il capo di gabinetto più longevo della storia della Repubblica da Giulio Tremonti a Mario Monti sino a Vittorio Grilli.
Dopo una dozzina di anni, ex colleghi al Tesoro, Caputi e Grilli si ritrovano su Tim da posizioni diverse, ma non distanti. Jp Morgan è il consulente più importante del fondo Kkr per Tim e presso il governo la rappresenta Grilli assieme, per gli americani, ad Alberto Signori (base a Londra, vive in Svezia) e al vice James Gordon. Da lontano vigila un gran capo che conosce l’Italia, Johannes Huth.
La convergenza di intenzioni sul fondo americano tra presidenza del Consiglio (Caputi) e ministero del Tesoro (Giorgetti) è palese. Kkr è ricca e forte. Ricca perché gestisce aziende con un patrimonio cumulativo di 500 miliardi di euro, per esempio in Italia ha Cmc, Fedrigoni, Generalife, Magneti Marelli. Forte perché ha ottime relazioni col governo di Washington, il dipartimento di Stato e le propaggini Usa in Europa e in Italia.
Per citarne una: il generale David Petraeus, ex direttore del controspionaggio Cia con Barack Obama, è «partner e chairman of the Kkr Global Institute». Non ci si deve far impressionare. Le reti di Tim sono una roba gigante per il gigante Kkr. Gli americani vogliono utilizzare il fondo dedicato alle infrastrutture.
Nel settore telefonico-internet ha quote in undici società, dalla Colombia alla Norvegia e poi Spagna, Olanda, Gran Bretagna, ma l’impegno finanziario complessivo è di 6,5 miliardi di euro. Perché fare la rete unica nazionale e affidarla agli stranieri è, per l’appunto, circostanza unica. Gli americani, però, non sono tanto stranieri. Un esecutivo fedele a Washington ha sempre voglia di mettere alla prova la sua fedeltà. Il guaio è che decidono i francesi di Vivendi. E sappiamo che i francesi fanno spesso dispetti al governo Meloni.