Fabio Pavesi per “Milano Finanza”
Per l’ennesima volta Vivendi ha sbattuto i pugni sul tavolo. Per Telecom, di cui il gruppo francese è il primo socio con il 23,9% del capitale, è ora di «aprire un capitolo nuovo; occorre sviluppare il vero valore della compagnia e della rete». Così si è espresso nei giorni scorsi Arnaud de Puyfontaine, il plenipotenziario di Vivendi in Italia e per anni nel consiglio di amministrazione del gruppo telefonico, incarico lasciato nei mesi scorsi insieme agli altri consiglieri di nomina transalpina. C’è da chiedersi però da che pulpito viene la predica.
Vivendi è entrata in Telecom nel 2016 e ha governato nella posizione del socio forte il gruppo. Certo, sono i manager a guidare la compagnia, ma è ovvio che i primi azionisti hanno la responsabilità del buon andamento dell’azienda. Per Vivendi l’avventura in Tim è cominciata a più riprese nel lontano 2016 con un rastrellamento di titoli, convinti che la china discendente di Tim in borsa fosse finita. Mai errore fu più grande.
Vivendi ha speso poco più di 4 miliardi di euro per costruire la posizione a un prezzo di carico di 1,07 euro per azione. Nel 2022 ha deconsolidato Tim portando il valore a quello di mercato, sceso a poco più di 0,21 euro con l’ultima svalutazione delle tante occorse negli anni, che portano le minusvalenze subite su Tim al livello di 3,2 miliardi di euro. L’80% dell’investimento bruciato in soli sei anni. Quasi un record da criptovalute. Solo nel 2022 il prezzo da pagare è stato 1,34 miliardi dopo i 728 milioni svalutati nel 2021.
VINCENT BOLLORE ARNAUD DE PUYFONTAINE
Ma ancor prima Vivendi aveva dovuto più volte allineare il valore di Tim ai valori di mercato. Finale di partita con 3,2 miliardi persi per strada. Vivendi sa che il grosso del suo investimento è ormai irrecuperabile. Può solo alzare la posta sperando che il titolo faccia un balzo in avanti nei prossimi mesi per recuperare soltanto una parte delle perdite subite. E il perno per una rinascita del titolo in borsa può solo essere la rete e la sua cessione.
Lo spezzatino tra rete e servizi è l’unico catalizzatore per risollevare il valore in borsa di Tim. Oltre all’incasso, con la separazione si potrebbe deconsolidare buona parte del debito finanziario netto da 25 miliardi di euro, liberando il business dei servizi dalla zavorra dell’indebitamento. Ed è qui che il colosso francese dei media di Vincent Bolloré gioca da mesi le sue ultime carte per stemperare il poderoso flop.
La posta è talmente alta che Vivendi continua con pervicacia a spingere perché la rete Telecom venga valorizzata oltre 30 miliardi. Un valore che nessun analista e nessun operatore è disposto a riconoscere. Se così fosse, tutto il resto di Tim (Brasile, servizi, Sparkle e quota in Inwit) varrebbe zero. Irrazionale. E non è un caso che gli analisti da tempo ipotizzino un valore della rete intorno a 20 miliardi e su quei valori, poco più poco meno, si sono formalizzate le offerte del tandem Cdp-Macquarie e di Kkr per la rete.
Solo se andasse in porto l’operazione Netco, il titolo Tim potrebbe arrivare a valere ben sopra i 40 centesimi per azione. E per Vivendi vorrebbe dire recuperare una piccola parte delle perdite cumulate negli anni. Ma evidentemente Bolloré e de Puyfontaine vogliono di più. C’è da chiedersi anche in questo caso perché i francesi non abbiano neppure considerato l’offerta pubblica (mai però formalizzata da Kkr) che valutava l’intera Tim 0,501 euro per azione per un valore di poco più di 11 miliardi quando il titolo capitalizzava la metà. Vi fu un annuncio, mai una formalizzazione: ma il cda cui faceva parte anche de Puyfontaine finì per neanche considerarla.
berlusconi bollore vivendi mediaset
Eppure correva la fine del 2021, solo poco più di un anno fa. Non certo un’era geologica. Da allora il titolo è sceso fin sotto la soglia dei 20 centesimi risollevandosi verso i 30 centesimi solo sull’ipotesi di cessione della rete. Sta di fatto che Vivendi non ha fatto nulla per valutare quella che poteva essere una chance di rilancio di Tim in borsa e un’exit strategy che avrebbe stemperato il bagno di sangue.
Tanto più che Tim ha cumulato negli ultimi due anni d’esercizio più di 10 miliardi di perdite. Non solo; la marginalità è scesa e il debito finanziario netto è risalito di 3 miliardi solo nel 2022. Un primo socio forte nei proclami, ma come un convitato di pietra non ha inciso per nulla sulla gestione dell’azienda, avendo pure votato i suoi ceo nel corso del tempo. Da quando Vivendi è entrata nel capitale Tim ha lasciato per strada oltre 4 miliardi di ricavi, ha perso oltre 7 punti percentuali di marginalità industriale e cumulato perdite per oltre 11 miliardi solo negli ultimi due anni, con un calo in borsa del titolo dell’80%.
Un capitolo nuovo dovrebbe aprirsi anche in Mediaset (ora Mfe-MediaForEurope), l’altra grande disfatta della campagna d’Italia del finanziere bretone. Bolloré dopo la disputa sul valore di Mediaset Premium, che aveva aperto un lungo contenzioso legale chiusosi solo nel 2021, rastrellò piano piano azioni Mediaset durante il 2016 arrivando a costruire una posizione del 28,8% a ridosso della soglia d’opa. Una minoranza di blocco costata 1,25 miliardi di euro. La querelle anche giudiziaria si è chiusa solo nel 2021 con la fumata bianca tra Vivendi, Fininvest e Mediaset e un accordo. Via libera all’espansione di Mediaset in Europa con la nascita di MediaforEurope; l’acquisto da parte di Fininvest di un 5% delle azioni in mano a Vivendi a 2,7 euro; un dividendo straordinario di 0,3 euro che ha consentito a Vivendi di incassare 102 milioni nel 2021 ; l’impegno però a vendere nell’arco di cinque anni il 20% delle azioni Mfe in capo alla fiduciaria Simon, espressione di Vivendi.
piersilvio e silvio berlusconi
Pace fatta, chiusura del conflitto. Ma nuovi guai per Vivendi. Quel pacchetto del 20% è infatti ancora lì. Impossibile venderlo finora senza contabilizzare perdite, dato che nel frattempo il valore delle azioni Mfe di categoria A e B è crollato. Spesi 1,25 miliardi nel 2016 per il 28,8% di Mediaset, a fine del 2022 quell’investimento oggi vale, tra azioni A e B di Mfe, solo 320 milioni. Pur conteggiando il dividendo straordinario di 102 milioni del 2021 e l’incasso del 5% ceduto a Fininvest, certo non basta a colmare il divario.
Due affari andati male in quella che doveva essere la poderosa campagna d’Italia del colosso francese che voleva mettere insieme contenuti (Mediaset) e distribuzione (Tim). La realtà, anche se con il senno del poi, è che Vivendi ha scommesso su due business in fase fortemente calante. Le telecomunicazioni in crisi di ricavi e la televisione generalista sotto attacco dei vari Over-The-Top. Chiedere ora un nuovo capitolo, rischia di essere un po’ tardivo.