Irene Soave per il “Corriere della Sera”
Tra le ricette più «oltraggiose» - regolarmente materiale per l'account social Italians Mad at Food , «italiani furiosi con il cibo» - c'erano la «Hawaiian», prosciutto e ananas, e l'impronunciabile «Meatzza», crasi di «meat», carne, e «pizza», un'orgia di wurstel, bacon, salame piccante e hamburger sbriciolato su base margherita.
Per gli indecisi c'era la pizza «Cheeseburger», con sopra hamburger e formaggio; una bizzarra «Bacon e pollo» condita con misteriosa «salsa bianca»; alcune concessioni locali come la «Mantovana», pesantissima creazione a base di zucca, pancetta e (non mantovano) pecorino.
Così, quando sui social si è diffusa la notizia che la catena di pizzerie americana Domino' s ha chiuso, sommersa dai debiti, l'ultimo di suoi 29 punti vendita italiani, il commento più ripetuto è stato: certo, vendevano il ghiaccio agli eschimesi. Lo stesso Washington Post , ieri, titolava «Domino' s ha chiuso in Italia.Vi stupite?».
Più perfido il Wall Street Journal: « No, grazie » (in italiano). Gli italiani, cioè, benissimo abituati con la «vera» pizza, non si sarebbero piegati, cioè, alle «americanate» by Domino' s che si amavano o si odiavano, come il bordo ripieno di formaggio filante, gli immancabili pepperoni (salamini, non ortaggi) o la app che permetteva di creare una pizza su misura.
Così la versione sui social - «Pizza come ultimo bastione dell'italianità?» twitta uno - dove del resto le storie a tema pizza (da quelle «carissime» di Cracco e Briatore alla disputa mai sopita tra napoletana e romana) appassionano sempre molto.
Ma la storia raccontata dai documenti giudiziari, dai quali - in assenza, per ora, di un comunicato ufficiale dell'azienda americana o di quella italiana che ne ha preso il franchising, ePizza - è più articolata.
Intanto Domino' s, fondata in Michigan nel 1960 e attiva in 85 Paesi, ha aperto le prime filiali italiane nel 2015.
Da allora la crescita è stata sostenuta, anche se meno delle proiezioni iniziali che puntavano a «triplicare» entro un anno gli 80 dipendenti dell'apertura e a una quota di mercato del 2%, con il piano di aprire in Italia 880 negozi entro il 2030.
È stato a fine 2020 che i debiti dell'azienda in Italia hanno toccato i 10,6 milioni di euro.
E se nel 2021 ePizza registrava vendite per 10,4 milioni di euro, quasi il 9% in più dell'anno precedente, era comunque un terzo meno delle attese, e la liquidità del marchio, poco meno di 500 mila euro, era circa un quinto di quanto previsto.
L'iconoclasta pizza americana, la cui pasta era prodotta a Buccinasco con una ricetta più accettabile di quella americana per i palati italiani, sarebbe stata cioè portata al fallimento dal Covid.
«La pandemia e le successive restrizioni prolungate hanno gravemente danneggiato ePizza», si legge nelle dichiarazioni ufficiali depositate ad aprile al tribunale di Milano, che ha concesso una protezione giudiziaria di 90 giorni dai creditori, ora scaduta. Domino' s Pizza, in Italia, faceva sì i conti con i palati «esigenti», così ancora le carte giudiziarie, degli italiani; ma la concorrenza, e il dilagare - nelle grandi città, le stesse dove era diffusa Domino' s - di un servizio di consegna a domicilio tramite app, da Glovo a JustEat, che ha sbaragliato la pur efficiente rete di motorini con baule riscaldato in cui l'azienda americana aveva investito.
«Attribuiamo i problemi all'aumentata competizione nel delivery», si legge ancora nelle carte, «ai ristoranti a conduzione famigliare che lo hanno implementato per sopravvivere e alla riapertura del servizio in sala dopo la pandemia».
Infine c'è un cenno a una procedura che, questa sì, forse non è mai andata giù agli italiani: usare una app a cui dare i propri dati, una password complicata e numerosi clic.
Metà degli ordini, si legge nel report, avveniva comunque al telefono, o di persona. Se non la pizza, fatalmente indigesta è stata l'app.
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