Alberto Mingardi per “la Stampa”
Il virus colpisce tutti i Paesi ma non tutti reagiscono allo stesso modo. Soffrono e soffriranno di più quelli con patologie pregresse. Il bizantinismo burocratico è la nostra.
Oggi La Stampa dà conto delle preoccupazioni degli imprenditori: non è ancora chiaro come ottenere i finanziamenti con garanzia statale al 90%. E' normale che chi prende a prestito denaro voglia procedure praticamente automatiche.
Nello stesso tempo, se parte del rischio rimane alla banca è perché si spera che essa possa fare il suo mestiere: e non riempirsi, quindi, di crediti destinati a incagliarsi. Bene le garanzie ma dobbiamo sperare che non servano tutte per tappare le falle di bilancio, altrimenti vuol dire che fra un paio d' anni avremo un' ecatombe d' aziende e una crisi finanziaria.
Sono soprattutto le contorsioni burocratiche a fare impazzire chi ha voglia di fare. Per non pagare i danni in caso di mancata consegna a un cliente, mancata consegna dovuta alla chiusura per legge degli stabilimenti, serve un certificato da parte della Camera di commercio sulla causa di forza maggiore.
Non può essere ricevuto via e-mail, ma bisogna andare a prenderselo o mandare un corriere. Alla faccia del "tutti a casa".
Grandi e piccoli ostacoli diventano tanto più pericolosi quanto più cominciamo a traguardare la riapertura. Per provare a riavviare l' economia, serviranno dispositivi di protezione individuale e distanziamento sociale anche nelle aziende. Servirà inoltre duttilità mentale per sviluppare, andando per tentativi, strumenti e pratiche che rendano compatibili contenimento del virus e un certo livello di attività.
Non è solo questione di soldi: è questione di gradi di libertà nell' affrontare una situazione nuova.
Al governo piacerebbe avere un grande piano, applicabile su tutto il territorio nazionale. Il piano però non c' è e se ci fosse non funzionerebbe. Sono diversi i territori, diversi i settori produttivi e merceologici, diverse le aziende.
Man mano che passa il tempo, è più chiaro che, anche se non sappiamo bene quale sia, esiste una "sostenibilità massima" del lockdown. Una soglia oltre la quale stare chiusi implica un drastico ridimensionamento del nostro benessere. Le filiere produttive hanno visto rompersi alcuni anelli di quella complessa catena di cooperazione che porta le merci sugli scaffali del supermercato. Alcuni fornitori non lavorano più, altri sono inaccessibili a causa delle crescenti barriere commerciali.
Ci sarebbe bisogno di una straordinaria riallocazione di risorse, di spostare capitali e persone da ambiti nei quali per un po' si potrà far poco a settori nei quali, invece, c' è bisogno urgente di iniziative. Servono meno camerieri e più fattorini, meno centri commerciali e più e-commerce, meno cinema e più streaming.
Perché questo avvenga, non basta difendere l' esistente. Bisogna che gli imprenditori provino a reinventarsi. Ma quante volte la tentazione invece è di gettare la spugna?
Sentiamo parlare di nuova Iri e di ricentralizzazione di tutto quel che si può centralizzare. Servirebbe l' esatto contrario: immaginare un sistema di silenzio-assenso per chiunque abbia bisogno di un permesso, una autorizzazione, una certificazione, un qualunque atto amministrativo.
A partire dai produttori di mascherine, che non possono immettere in commercio dei beni di cui c' è assoluta necessità solo per le lungaggini burocratiche.
L' onere della prova ricada sulle amministrazioni.
Nella maggioranza dominano tentazioni dirigiste. Invece sarebbe proprio questo il momento di fidarsi di imprese e imprenditori. Non per ideologia, ma per sopravvivere.
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