Estratto da “La caduta di un impero” di Carlo Sama, Rizzoli
Nella sua scalata alla Montedison, che io vissi al suo fianco momento dopo momento, telefonata dopo telefonata, acquisti di pacchetti di azioni uno dopo l’altro, Gardini aveva speso una montagna di soldi, indebitando pesantemente la Ferruzzi.
Raul non aveva badato minimamente al prezzo quando diede ordine al telefono al nostro agente Umberto Maiocchi di acquistare tutte le azioni Montedison che poteva trovare; poi strapagò le azioni che Carlo De Benedetti aveva precedentemente rastrellato in Borsa; infine, non si fece particolari patemi d’animo nell’acquistare a peso d’oro il pacchetto detenuto dall’industriale milanese delle vernici Gianni Varasi, il più importante pilastro di quel drappello di azionisti di media taglia, che comprendeva anche la Inghirami e la Maltauro, di cui Schimberni si era circondato per fare di Montedison una public company indipendente e accrescere e difendere il suo potere personale.
Gardini aveva comprato la Montedison senza pensarci due volte. Ma anche senza avere una idea precisa di che cosa fosse e come esattamente funzionasse, in realtà, quell’oggetto del desiderio che aveva fortemente voluto e fatto suo. Ovviamente, Raul conosceva bene la storia di Montedison ed era consapevole dell’importanza strategica di quella società nel panorama industriale italiano.
Così come era consapevole dell’enormità del passo che aveva appena compiuto, scalando Foro Buonaparte. Ma, adesso, effettuato il blitz, tutt’altra cosa era dover gestire di fatto la Montedison, capirne il complesso funzionamento interno, decidere che tipo di impronta dare alla sua conduzione, se operare in continuità oppure apportando dei cambiamenti alla linea che Schimberni aveva fin lì seguito.
Per non parlare della nostra scarsa conoscenza e della diversità dei nuovi settori della chimica con cui stavamo entrando in contatto (plastiche, fertilizzanti, fibre, farmaci ecc.) rispetto ai nostri tradizionali ambiti di attività come lo zucchero o i semi oleosi.
Passata l’euforia per la scalata e per il successo personale e di immagine del suo riuscito colpo di mano su Montedison, che aveva sorpreso e stupito tutti, Gardini si rese subito conto di quanto fosse complessa e intricata quella galassia che, dagli inizi degli anni Ottanta, Schimberni aveva rivoltato come un calzino, riorganizzandola, riportandola al profitto e spingendola anche nel campo immobiliare e dei servizi con la Iniziativa Meta (acronimo di Montedison Terziario Avanzato).
Bettino Craxi Raul Gardini Carlo Sama
E fu sufficiente poco tempo perché il sorriso beffardo che Raul aveva sfoderato quel mattino, varcando il portone di Foro Buonaparte, gli si spegnesse sul volto, nella consapevolezza di essersi inoltrato in acque profonde e sconosciute.
In sostanza, fu anche per la paura di non essere da subito all’altezza della sfida manageriale che Montedison richiedeva, e quindi non solo per una specie di ammirazione strisciante nei confronti di Schimberni, che Gardini lo lasciò operare quasi indisturbato per un lungo periodo.
carlo sama alessandra ferruzzi
Da parte sua, Schimberni, pur ammaccato dal ridimensionamento della «sua» public company, che ormai non era più tale avendo ora un azionista di controllo, approfittò di quel momento di incertezza di Gardini e per un bel po’ non gli fece letteralmente toccare palla.
Schimberni affidò Raul, togliendoselo così di torno, alle «cure» dei suoi due amministratori delegati, Giorgio Porta e Lino Cardarelli, che di fatto «narcotizzarono» Gardini, blandendolo e intrattenendolo amabilmente per settimane sui settori industriali di Montedison, sulla sua strategia, sul suo funzionamento, sulle sue società controllate, su quella macchina così complessa che sembrava poter essere guidata solo da chi ne conosceva pienamente tutte le sfaccettature. Con ciò confondendo Raul e rendendolo, se possibile, ancora più timoroso e titubante sul da farsi di quanto già non lo fosse.
raul gardini serafino ferruzzi
Spietato, forse anche per quella impressione di smarrimento che Raul diede loro in quei giorni, fu il giudizio su Gardini che Cardarelli espresse in seguito, nel suo libro biografico Dalla Montedison a Baghdad, edito da Guerini e Associati e curato da Gianfranco Fabi. In un paragrafo intitolato Gardini: né cultura industriale, né visione, l’ex manager Montedison, infatti, lo bollò di «provincialismo» e «scarsa cultura industriale».
alessandra ferruzzi raul gardini
In effetti, in quell’ormai lontano 1987, era come se Gardini, oltrepassando il portone della Montedison, fosse entrato in una fitta giungla e avesse perso l’orientamento. Gli furono presentati uno dopo l’altro anche i manager delle numerose società operative di Montedison, da Andrea Mattiussi a Roberto Bencini, da Giancarlo Cimoli a molti altri, tra cui anche Giuseppe Garofano, che era a capo di Iniziativa Meta.
Sembrava che Gardini si smarrisse sempre di più nell’intrico di quegli organigrammi, società e settori, sballottato un giorno tra la Montedipe e la Montefibre, un altro tra la Agrimont e la Erbamont-Farmitalia Carlo Erba, impegnato in una serie infinita di colloqui con i manager delle diverse compagnie, dai quali usciva con le idee più confuse di prima.
Infatti, ciascuno di essi gli raccontava una storia diversa, prospettandogli anche le strategie più improbabili, perorando ognuno la propria causa e spiegandogli come il proprio settore di attività fosse il più valido e quello su cui puntare di più. Raul era frastornato, non sembrava nemmeno più lui. Mentre Schimberni, nel frattempo, continuava a fare il suo gioco e a tessere le sue trame.
In particolare, Schimberni con diverse operazioni stava indebitando viepiù la Montedison. Emblematico fu l’acquisto dagli spagnoli Mario Conde e Juan Abelló, per la stratosferica cifra di 450 milioni di dollari dell’epoca, del 100% della Antibióticos. Ma alcuni giornali scrissero che il prezzo fu ancora più alto.
La strategia di Schimberni era chiara: più la Montedison era indebitata e più essa sarebbe stata difficile da gestire anche da parte di quel nuovo azionista ingombrante che aveva avuto l’ardire di scalare il «suo» giocattolo. A fine 1987 i debiti di Montedison erano ormai saliti a poco meno di 8000 miliardi di lire.
Di tanto in tanto Schimberni si intratteneva furbescamente con Gardini, esprimendo un finto interesse per la chimica verde che Raul vagheggiava. In una occasione, per dimostrare la sua completa sintonia di idee con lui e per solleticarne la vanità, arrivò perfino a promettere a Raul che avrebbe potuto mettere un cip sul nostro fallimentare stabilimento di etanolo in Louisiana, la Missalco (Mississippi River Alcohol), che non riusciva a decollare per problemi tecnici in quanto Raul si era fatto mal consigliare da Vernes sulla tecnologia produttiva da adottare.
Schimberni poi effettivamente mise un cip sulla Missalco. Ma si trattò soltanto di un cip, appunto, niente di più.
Il cul-de-sac in cui, come Ferruzzi, ci trovavamo era evidente. Ci eravamo indebitati moltissimo per comprare una società che, a sua volta, si stava indebitando sempre di più. E non potevamo nemmeno comandarla.
Inoltre, quella esperienza senza costrutto in Montedison stava modificando geneticamente il Gardini che io avevo conosciuto, rendendolo incerto e pavido. Ogni giorno che passava, cresceva la preoccupazione mia, di Cusani e di Sergio Cragnotti, un altro dei top manager di Gardini, prima impegnato nelle attività del Gruppo in Brasile e in Francia e, in seguito, amministratore delegato di Enimont e vicepresidente di Montedison.
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Che la realtà di Montedison fosse una macchina complessa, e che per gestirla andava presa per le corna e non subita passivamente, me ne ero reso conto io stesso nel mio ristretto ambito di attività. Infatti, Schimberni aveva costruito attorno a sé non solo una fitta rete di prime e seconde linee di manager fedeli, ma anche un apparato ben oliato che lo supportava nelle sue strategie di comunicazione.
Abilissimo nelle relazioni con gli investitori e in quelle istituzionali, necessarie per mantenere i contatti con la politica, con una forte e articolata organizzazione ad hoc che lo supportava, Schimberni aveva a disposizione anche una potente squadra di Relazioni esterne guidata da un professionista capace come Carlo Bruno.
L’ufficio Stampa di Carlo Bruno fu molto abile in quei mesi a far fluire continuamente verso i media − in modo diplomatico ma duro nella sostanza − la narrazione secondo cui Gardini era diventato, sì, l’azionista di riferimento, ma la Montedison continuava a comandarla Schimberni. Punto e basta. Uno stato di cose per noi intollerabile.
Un giorno, anche per scuotere Raul dal suo immobilismo, gli dissi chiaramente che, visto che la Montedison era ormai diventata il suo mondo ed era una realtà molto più complessa della nostra, cioè quella della vecchia Ferruzzi, io avrei potuto dimettermi da responsabile delle Relazioni esterne della Ferruzzi stessa e che il mio incarico avrebbe potuto essere affidato a Bruno.
ANGELO VIANELLO - RAUL GARDINI - VANNI BALESTRAZZI
Non so se Gardini fosse già arrivato intimamente, lui medesimo, alla convinzione che non si poteva più continuare così. Con ogni probabilità, si era finalmente reso conto che Schimberni lo stava prendendo per i fondelli. Sta di fatto che quel giorno mi rispose secco: «No! Tu devi continuare a dirigere le Relazioni esterne della Ferruzzi e devi prendere il comando anche di quelle della Montedison!».
Fu una svolta, anche perché così Schimberni venne privato del suo giocattolo comunicazionale. Nel giro di poco tempo lo scenario di Foro Buonaparte cambiò completamente. Finalmente Gardini affrontò Schimberni che, messo alle strette, diede le dimissioni. E con lui se ne andarono poco dopo anche diversi dei suoi uomini più vicini, come Porta e Cardarelli.
Ma il Gruppo Ferruzzi-Montedison necessitava urgentemente di una rapida ed efficace cura per non crollare sotto il peso dei debiti. Ci si dovette perciò rivolgere a Mediobanca, che ideò l’operazione di fusione tra la Ferruzzi Finanziaria e Iniziativa Meta, holding che aveva già incorporato Bi-Invest, deteneva quote di Fondiaria e nella cui pancia stavano società come Standa, Datamont, Tecnimont, Tre I, Cagisa e Sefimeta. Grazie a vantaggiosi concambi, fu una operazione decisamente vincente per la Ferruzzi, pur scontentando gli azionisti di Montedison che si sentirono depauperati di un loro pezzo pregiato come la Meta.
La Ferruzzi, con la scalata di Montedison, aveva rischiato come Napoleone di finire in una disastrosa campagna di Russia, che alla fine fu evitata grazie alla operazione Ferruzzi-Meta e alla nascita della Ferfin. Gardini e i Ferruzzi, a quel punto, avevano ancora in mano il loro destino. Con alcune dismissioni mirate, il Gruppo Ferruzzi-Montedison avrebbe potuto ridurre ulteriormente l’indebitamento e rifocalizzarsi sui settori più redditizi mantenendo e rafforzando le più importanti leadership produttive mondiali, europee e italiane in suo possesso.
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Avevamo ritrovato la carica e ricominciammo a spingere con successo anche sulla nostra comunicazione. Una mattina Gardini entrò in ufficio e scarabocchiò con una stilografica per alcuni minuti su un foglietto appena più grande di un biglietto da visita. Poi me lo mostrò e disse: «Voglio che mi metti tutto il Gruppo Ferruzzi-Montedison su una sola paginetta, fammene anche una versione in inglese, una in francese e una in tedesco, così me la infilo in tasca e quando vado in giro per il mondo la tiro fuori e la mostro ai miei interlocutori per fargli capire chi siamo e che cosa facciamo».
«Una paginetta?» gli obiettai. «Impossibile, non ci sta tutto su una paginetta.» Dopo qualche minuto di discussione, trovammo un compromesso. Avremmo fatto un piccolo pieghevole con poche facciate. Con tutta la squadra ci mettemmo subito al lavoro. Studiammo il da farsi facendo mille prove sulla mia grande lavagna di carta: schizzi, grafici, decine di fogli scartati, strappati dalla lavagna e buttati nel cestino.
Smontammo idealmente il Gruppo e le sue società rimontandolo una infinità di volte in modo diverso e finalmente trovammo la quadra. Ricomponemmo i pezzi della Ferruzzi-Montedison in cinque macroaree − alimentazione, ambiente, energia, salute e nuovi materiali – e venne fuori così anche il nostro nuovo messaggio: «Una strategia industriale per la qualità della vita».
Gardini e Fortis, poi, scrissero a quattro mani il discorso che Raul avrebbe dovuto tenere all’Assemblea della Ferfin di inizio settembre 1988, tutto impostato su quel messaggio.
In realtà, cinque macrosettori erano perfino troppi e sarebbe stato logico portarne avanti solo due, l’agroindustria e l’energia.
Però le cinque sfide funzionavano molto come idea ed erano coerenti anche con la tradizionale filosofia del Gruppo Ferruzzi di impegnarsi per l’innovazione e lo sviluppo umano. Tant’è che in seguito, nel 1989 mi pare, la nostra strategia per la qualità della vita finì anche in quel famoso case study della Harvard Business School, promosso dal professor Ray Goldberg: Gruppo Ferruzzi. A New Global Company. Fu davvero un enorme successo di immagine, per noi. Avevamo dato a Goldberg e ai suoi ricercatori informazioni, dati, tabelle e grafici per settimane, durante l’estate.
Purtroppo, però, invece di imboccare alla massima velocità le autostrade spianate davanti a noi, alimentazione ed energia, anche sviluppando le nostre nuove plastiche biodegradabili, i biocombustibili e così via, e dismettendo le attività non strategiche, ci siamo subito di nuovo impantanati nella chimica più banale.
Ci fu dapprima il momento magico di quel giovane responsabile della finanza, di cui Raul si «innamorò» per qualche settimana. Gardini lo reputava un genio e ce lo vendette come tale. In realtà, era del tutto inadeguato. Un tipo che ebbe anche una tresca con una collega e che venne preso per i capelli dalla moglie sul portone di Montedison. Poi fu la volta di Alexander Giacco, il deus ex machina della Himont, il suo nuovo guru. Così Gardini, sempre più infatuato del suo nuovo giocattolo, la Montedison, continuò a voler fare soprattutto il «chimico» a tutto campo.
GABRIELE CAGLIARI RAUL GARDINI
Dapprima si perse per mesi nell’illusione di poter diventare il re mondiale delle materie plastiche, soggiogato dal carisma e dall’influenza di Giacco, che gli montò la testa. L’esatto opposto della chimica verde, cioè quello che era stato il mantra suo e nostro fino a quel momento. La nuova parola d’ordine di Raul, invece, divenne «polimerizzare».
Sembrava che al mondo ci fossero solo le poliolefine, il polipropilene, tutto il resto passò in second’ordine. Una vera e propria esaltazione; fuori tempo massimo, peraltro, perché il polipropilene, pur con nuove tecnologie come lo Spheripol, non era altro che il vecchio Moplen che Gino Bramieri già pubblicizzava negli anni Sessanta a Carosello.
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Poi fu la volta dell’epopea tragica di Enimont, su cui però, non spenderò in questo libro una sola parola, essendo già stato scritto a proposito di questa vicenda e del suo infelice epilogo tutto e il contrario di tutto.
Enimont fu l’ossessione finale di Gardini, la sua più grande sconfitta. Fu un lungo calvario per tutti noi, vissuto in un clima di crescente incertezza. Solo lui, Raul, restò convinto ostinatamente fino alla fine di poter vincere la partita con l’Eni, coinvolgendo Vernes e i suoi amici francesi, scalando la joint venture guidata da Necci e Cragnotti a dispetto dell’Eni, facendo infuriare, compattandola, tutta la politica italiana.
E in un clima surreale, nel pieno della palude gestionale di Enimont, delle ripercussioni finanziarie e industriali negative per Ferruzzi-Montedison che Enimont determinò, ci fu anche il fastoso e miliardario varo del Moro di Venezia, che Raul organizzò in modo faraonico: l’ultima illusione di una onnipotenza che ormai gli stava lentamente sfuggendo come sabbia tra le dita.
Gardini fece perfino realizzare da Franco Zeffirelli un film sulla cerimonia del varo, con musiche di Ennio Morricone. La laguna affollata di barche e motoscafi davanti alla Punta della Salute, l’11 marzo 1990, fu il palcoscenico per la sua definitiva incoronazione a nuovo doge della città, tra squilli di trombe e sfilate di personaggi in costume. Furono invitati a Venezia ad assistere al varo del Moro decine di ospiti illustri, tra cui Gianni Agnelli, che venne accompagnato da Jas Gawronski. E furono distribuiti agli ospiti gadget sfarzosi, tra cui costose coperte in cachemire rosso carminio con lo stemma in oro del leone di Venezia.
Quante volte, con Alessandra, abbiamo ripensato a quell’ennesima occasione perduta di Raul! Se, invece di infilarsi nel tunnel senza sbocco di Enimont e di voler fare il chimico a tutti i costi, si fosse concentrato sulla vecchia Ferruzzi e su ciò che più sapeva fare, cioè l’armatore e il velista, forse il suo e i nostri destini sarebbero stati diversi.
massimiliano ferruzzi armatore del moro di venezia
Se, anziché tentare di trasformare il Gruppo Ferruzzi in un improbabile Gruppo Gardini a danno delle nostre famiglie, avesse investito di più il suo tempo sulla Coppa America e sulla popolarità che la sfida velica gli avrebbe portato, forse Raul oggi sarebbe ancora con noi.
Con il trionfo nel campionato mondiale Iacc del 1991, la successiva vittoria nella Louis Vuitton Cup e la finale perduta di San Diego del 1992, trasmesse in diretta da Telemontecarlo, Gardini divenne l’uomo del momento: tutta l’Italia era praticamente ai suoi piedi!
Invece la vicenda Enimont lo distrusse fisicamente e psicologicamente. La stessa disastrosa speculazione sulla soia al mercato di Chicago, che Gardini tentò assieme a un ristretto numero di trader suoi collaboratori, a nostra insaputa, fu forse dettata dalla disperata volontà di Raul di guadagnare del denaro da investire poi nella scalata alla joint venture chimica.
Il fallimento di quella speculazione costò alla Ferruzzi una cifra imponente e mai precisata, oltre alla vergogna di essere multati e ripudiati da quel tempio del trading e della finanza mondiale che era solito accogliere Serafino Ferruzzi come un re.
Quella speculazione sulla soia fu per la Ferruzzi un tremendo bagno di sangue finanziario. Lo stesso Roberto Michetti, poi braccio destro di Gardini dopo la nostra separazione, ha stimato una perdita per il nostro Gruppo assai superiore ai 100 milioni di dollari inizialmente indicati in via ufficiale; «Forbes» arrivò a parlare di un buco definitivo di addirittura 400 milioni di dollari.
Forse, quella bottiglia che la figlia Maria Speranza, detta Cochi, non riuscì a rompere al primo tentativo durante la cerimonia del varo del Moro era stato veramente un sinistro presagio. E Raul era molto superstizioso... Tanto che fece anche togliere dal film di Zeffirelli la scena di quel colpo di bottiglia non riuscito, lasciando solo il secondo, andato a buon fine.
Chissà, il destino probabilmente era già tracciato. La fortuna di Raul, in gran parte per colpa sua, da qualche tempo lo stava a poco a poco abbandonando. Ma Gardini, il mio vecchio amico ormai geneticamente modificato dalla chimica, non se ne accorse.
Con la scalata di Montedison avevamo sfiorato la Beresina.
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