Federico Ercole per Dagospia
Persona 5, o la cronaca di una quotidianità adolescenziale crudele e banale, tempo rubato da adulti terrificanti per affogare la gioventù nella palude della loro miserabile demenza precoce. Abuso, sfruttamento e disciplina. Ma lo spirito giovane non assuefatto si ribella e diviene indomabile, così la maschera che indossa non è più funzionale ad una dialettica con la società ma alla sua distruzione e catarsi..
Quindi il concetto di “Persona” come inteso da Carl Gustav Jung, ovvero quel travestimento necessario per regolare i rapporti tra soggetto e collettività, risulta ribaltato nel videogioco di Atlus per PlayStation 4, divenendo invece una manifestazione di pulsioni potente e liberatoria, qualcosa di trattenuto e addomesticato trasformato in indomito, la rivoluzione e la vittoria dell’individuo sul ruolo impostogli dalla società. La maschera non è l’attore ma l’uomo nella sua identità definitiva.
Con la sua giocosa e non superficiale psicanalisi pop-manga, Persona 5 è un gioco di ruolo giapponese dall’estensione smisurata quanto i suoi contenuti, un’opera che scende nel profondo anche durante i necessari momenti sciocchi e ci trasporta in una Tokyo afflitta da crescenti casi di follia suicida e omicida.
Indossiamo la maschera di un liceale sedicenne in libertà vigilata per avere difeso una donna da un tentativo di stupro e ferito il suo facoltoso e potente assalitore. Un barista inconsueto amico dei genitori ci prende in custodia e cominciano così a frequentare, già vittime del pregiudizio, la nuova scuola.
Tuttavia l’elemento fantastico, più horror che fantasy, irrompe dopo poco nella realtà, già anticipato da un folgorante preludio dalle immagini sospese tra il cinema di Alfred Hitchcock, John Woo, Ingmar Bergman e Ken Russel ma visto in acido e trasformato in cartoni animati giapponesi da uno sguardo allucinato: il ragazzo vede la sua scuola trasformarsi in un castello, dove il ributtante professore di ginnastica domina, tortura e imprigiona una corte di studenti schiavi.
VIAGGIO AL CENTRO DEL SUBCONSCIO
Il castello non esiste nel presente della Tokyo del videogioco ma è una rappresentazione soggettiva dell’insegnante, viscido ex-campione di pallavolo, la proiezione del suo modo di percepire la scuola ed esiste solo nel suo subconscio. Ma possiamo entrarci grazie ad un’applicazione magica comparsaci per incanto sullo smartphone e combattere quindi i demoni del castello.
Sconfiggendo l’orrido professore di ginnastica nel mondo della sua psiche contorta lo vinceremo anche nella realtà, dove ricatta sessualmente una studentessa fino a spingerla al suicidio e malmena con sadismo chi dovrebbe allenare, difeso dalla stessa istituzione scolastica perché egli porta prestigio al liceo con la sua fama di campione olimpionico.
Aiutati da un gatto antropomorfo e da altri studenti distruggeremo il mondo fittizio elaborato dal professore, spingendolo in seguito a confessare concretamente la sua infamia e pagare le sue colpe. Sono trascorse oltre dieci ore ma dopo questo esteso, appassionante “tutorial” ludico ed emozionale il gioco comincia davvero, portandoci a viaggiare al centro del subconscio di cattivi sempre più potenti, sfidando un sistema corrotto.
Travestiti da ladri fantasma, sebbene i veri costumi siano quelli di studenti, finiamo per essere ricercati come pericolosi criminali da tutte le forze dell’ordine, mentre tentiamo ancora una volta di salvare l’universo da forze terrificanti e apocalittiche come in ogni gioco di ruolo giapponese; ma questo è uno dei più ispirati e lisergici tra i tanti realizzati, lo è già da quando uscì nel 2016. Perché il videogioco in questione è la versione “royal” di Persona 5 che ingigantisce, addirittura migliora, l’esperienza originale con nuovi contenuti diegetici, ludici e artistici.
TRA QUOTIDIANITÀ ED ECCEZIONALITÀ
Non c’è solo il favoloso in Persona 5, ma la ritmica del presente, banalità, noia, fatica, tanto dolore e poca gioia. Tutti i giorni ci rechiamo a scuola prendendo la metropolitana, svolgiamo lavori part-time per ottenere qualche yen in più, coltiviamo i rapporti umani. La routine è implacabile ma utile per aumentare le statistiche e le abilità del protagonista mentre il tempo fugge implacabile e i giorni trascorrono: ogni attività consuma delle ore e bisogna valutare con strategia che cosa fare della propria giornata, considerando che la scuola ci occupa la mattina. C’è il Game Over se tergiversiamo troppo e arriviamo in ritardo agli eventi fondamentali del gioco, il tempo è un nemico e un fondamentale elemento ludico, mai sottovalutarlo.
E poi dopo tanta e comunque spassosa abitudine ecco l’eccezionalità del favoloso, labirintici “dungeon” da esplorare, nemici grotteschi e opere d’arte di mostruosità surreale da affrontare, creature nemiche da sedurre con una dialettica folle per renderli alleati e usarli come fossero Pokemon, centinaia di combattimenti a turni che richiedono meditazioni tattiche non elementari.
Sembrerebbe impossibile che queste dissolvenze stilistiche possano convivere ma Persona 5 è un miracolo di organicità, dovuto ad un’arte che si rivela in ogni suo aspetto anche minimo e non importa che la sua resa grafica appaia vetusta, perché la qualità del disegno e delle idee, in definitiva di tutta la sua estetica, è eccezionale.
Con decine di ore di avventura, ribellione e ripetizione (per un occidentale persino esotica perché d’altronde siamo a Tokyo), Persona 5 Royal è la versione definitiva di un videogioco già immenso e profondo, questa volta sottotitolato anche in italiano, possibilità che rende più universale l’esperienza nostrana, considerata la mole dei testi.
Straripante di idee, simboli, significati, giochi e bellezza, in questo quinto Persona l’ingiustizia di una dolorosa quotidianità di oppressi è stravolta, sconfitta e infine sublimata dal favoloso sentimento della sovversione e dal potere di immaginare, dunque lottare.