Federico Ercole per Dagospia
Kratos è cambiato, invecchiando ed emigrando dal mito ellenico a quello norreno qualcosa dentro di lui è così mutato da renderlo quasi irriconoscibile dalla spietata bestia assassina che è stato fino al terzo episodio che concluse la saga greca, quando già una metamorfosi o meglio una sublimazione, cominciò a manifestarsi nella sua psiche traumatizzata durante le ultime fasi del videogioco.
Il Fantasma di Sparta dei due God of War nordici è invece una divinità spezzata tornata uomo abnegando l’orrore della violenza che continua tuttavia ad inseguirlo e a precipitarlo, ancora una volta, nel ruolo del massacratore di dei, di infrangitore di idoli, esercitando una furia che anche il giocatore percepisce come stanca, disperata ma necessaria laddove è proprio la “necessità” ad essere origine del male, “der not” in tedesco, che significa anche angoscia, pena e travaglio. Malgrado i combattimenti di Kratos nel primo God of War norreno e poi in Ragnarok siano senza dubbio brutali quanto appaganti da eseguire, in essi c’è sempre una pietrosa gravità, un peso, una sofferenza. Se la saga ellenica è una storia di maledizione e vendetta, quella norrena è sul pentimento e sulla volontà di catarsi, forse impossibile.
Adesso si può tornare ad essere Kratos su PlayStation dopo il finale intimista di God of War Ragnarok, incompreso da chi desiderava i fuochi d’artificio di uno spettacolo carnascialesco e non così sottile e sublime, durante il quale invece dei fasti trionfali e pirotecnici di un colossal ispirato ai fumetti hollywoodiani più triti e riciclato cento volte ci sono vuoti e silenzi dolorosi, una dolorosa lentezza nella quale si riconosce la fragilità di un uomo al tramonto, più solo e vicino all’ombra, con la consapevolezza che un figlio, considerato ancora come un bambino, è invece cresciuto e sta per lasciarlo per andare oltre.
Ancora una volta Kratos quindi in un’espansione gratuita (ma dovete avere comunque il gioco originale) che quando annunciata avrebbe potuto sembrare una superficiale ma divertente occasione per tornare a menare nemici con l’ascia, le lame e la lancia del tetro figuro tatuato di cenere. Ma non è così, sebbene si combatta molto. God of War Valhalla, così si intitola quest’espansione, è soprattutto un viaggio introspettivo nel passato, tra sensi di colpa e terrore per il futuro, un epilogo e forse lo spettro di un nuovo inizio mimetizzati in una dolorosa, breve quanto profonda epopea dell’autocoscienza.
L’ETERNO RITORNO DI SÉ
God of War Valhalla è strutturato secondo le regole del “roguelite”, ovvero una modalità più accessibile del “roguelike”, dove si comincia il gioco da capo ad ogni Game Over perdendo ogni risorsa e potenziamento ottenuti. Nel “roguelite” si mantengono invece alcuni bonus sulle statistiche che diventano permanenti una volta ottenuti.
Invitato da un ospite misterioso, almeno fino ad un certo punto, Kratos, con la testa di Mimir appesa alla cinta, valica le porte di un Valhalla spettrale e cangiante negli spazi e nelle forme per adeguarsi ai suoi ricordi, costretto a ripetere il viaggio fino ad una definitiva agnizione, combattendo nemici che trascorrono da un mito all’altro. Tornano così, in una maniera assai più esplicita che durante i due giochi norreni, le memorie e persino i luoghi del passato ellenico e, malgrado la ripetizione, questi spazi sciolti nel “loop” meravigliano e sgomentano insieme in una collisione furiosa tra immaginari e mito.
La sceneggiatura è diffusa tra azione e poca, elementare esplorazione, e risulta assai raffinata anche quando si allontana dal personaggio Kratos per raccontare di Mimir, del suo amore e del suo sconforto. L’equilibrio tra narrazione e azione è straordinario in tanta concisione e illusoria ripetizione, così God of War Valhalla è materia ludica imprescindibile per chi ha amato la saga e una breve, esemplare lezione di “roguelite” ispirata a quel capolavoro che è Hades.
QUANDO IL NEMICO È IL PASSATO
È evidente che la nemesi di Kratos sia il suo passato, se stesso e nessun altro, malgrado sia stato ingannato da Marte egli ha voluto, almeno in maniera inconscia, essere ingannato. Il ricordo della sua terrificante violenza, del massacro involontario (ma quanto involontario?) della sua famiglia lo porterà sempre sulla sua pelle. Sorge spontaneo quindi chiedersi quale sarà il futuro ludico di questo personaggio, cresciuto a dismisura un videogioco dopo l’altro, ora che si è conclusa la saga norrena.
Si potrebbe pensare che quest’ultima possa essere continuata giocando nei panni del figlio Atreus, ma davvero i Santa Monica Studio abbandonerebbero un tale colosso dell’immaginario, oltretutto assai profittevole? Oppure s può immaginare un’altra migrazione tra i miti, tipo in Egitto, ma sarebbe ridicolo. Ecco è più probabile un ritorno alla Grecia, magari un remake dei primi tre episodi. Tuttavia dopo la saga norrena quel Kratos non sarebbe forse più accettabile, nemmeno adeguato ai tempi se non per qualche vetusto nostalgico. Se Kratos dovesse tornare in Grecia dovrebbe essere il Kratos di adesso, precipitare nel suo passato e sconfiggere il suo vero, unico nemico, il se stesso di allora. Kratos contro Kratos, per trovare infine il riposo, la redenzione.
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