Federico Ercole per Dagospia
Affondare nell’oceano scuro di Alan Wake II, seguito del videogame uscito nel 2010 che accoglie chi lo gioca con traumatica gentilezza, precipitandolo tra i suoi innumerevoli immaginari sovrapposti e sovraimpressi in un mirabile gioco di tenebra e lucore. La nuova opera di Remedy dopo quella giostra soprannaturale tra le architetture brutaliste di Control è una somma esemplare del pensiero, delle visioni e dei giochi della compagnia finlandese e soprattutto di Sam Lake direttore, interprete e scrittore di un horror soprannaturale ambizioso che, quando sembra sul punto di cedere al suo anelito di grandezza e di vacillare sotto il peso di un’aspirazione artistica eccessiva, ritrova sempre, tramite un geniale estro visionario, un equilibrio inquietante per la sua presunta impossibilità.
Si può andare alla deriva lungo la spirale e le spirali di Alan Wake II anche se ignari del primo episodio e di Control, la cui narrativa qui trova uno spazio di rilievo, esperirlo quindi come un’opera unica, surreale e disgiunta da ogni fondamenta, un po’ come vedere il terzo Twin Peaks senza conoscere le altre stagioni, perché l’ignoranza non muterebbe comunque la grandezza. Tuttavia giova al gioco di echi e corrispondenze avere giocato le altre opere di Remedy, anche i primi due episodi del celeberrimo Max Payne per identificare le radici “noir” di Alan Wake II così spesso intrecciate all’horror.
È inoltre consigliabile per ammirare la dialettica colta e mai pedissequa di Alan Wake II con il cinema, la letteratura, la musica, i videogame e la televisione, conoscere o rivedere Il Seme della Follia e Cigarette Burns di john Carpenter, Inland Empire e Mulholland Drive di David Lynch, la troppo sottovalutata ma bellissima serie Fringe, Tenacious D con jack Black, leggere la Metà Oscura di Stephen King e guardare il film omonimo di George Romero, giocare Silent Hill IV The Room e Deadly Premonition di Swery.
Alan Wake II non sembra citare o appropriarsi del passato o di altre opere più o meno celebri, ma le ha interiorizzate nel suo racconto e nella sua visione, incorporandole come suggestioni, come vaghe, tremule ombre che si allungano oltre il medium di riferimento, sconfinando verso altre regioni della rappresentazione e dell’arte. Alan Wake II non è “solo” un videogame, ma davvero un UDO secondo la definizione così efficace del gioco elettronico che da il titolo al libro di Matteo Lupetti, recentemente edito da Tebe, un “oggetto digitale non identificato”.
IL BUIO OLTRE IL LAGO
Risulta complesso e sarebbe persino scorretto rivelare aspetti della trama di Alan Wake II (uscito per Playstation, Xbox e PC) o meglio delle sue trame molteplici che si sfiorano, collidono, si contraddicono fino a coesistere con (sovra)naturale potenza vitale nel finale.
Controlliamo -tra diverse dimensioni della realtà e dell’immaginazione che si contaminano a vicenda- sia la detective dell’FBI Saga Anderson (una protagonista degna di nota per la profondità rara con cui è illustrata) che lo scrittore scomparso Alan Wake.
Ci muoviamo con Saga nei boschi più che sinistri ma belli in una maniera spaventosa e innegabile del paese lacustre di Bright Falls esplorando selve, rive, angoscianti Luna Park... Quando vogliamo, con la pressione di un solo tasto, ci si può spostare nel “luogo mentale” di Saga, una stanza fuori dal tempo dove è possibile approfondire i casi e riflettere sulle indagini. Queste stasi pensierose possono anche fungere come rimedio alla tensione continua dell’esplorazione, al suo buio, alla presenza effimera quanto letale di nemici ombrosi e diafani che si possono sconfiggere con luci ed armi ma risultano sempre aggressivi e disturbanti.
Con Alan Wake esploriamo invece una New York allucinata e i suoi spazi claustrofobici, alterandoli con l’immaginazione dello scrittore, un’originale e ispirata modalità ludica.
Ci sono momenti che è necessario tuttavia citare per la loro grandezza e per come stritolano più media insieme trasformandoli in qualcosa di informe e magnifico: un lungo segmento di musical rock così eccentrico da ricordare frammenti del Fantasma dell’Opera di Brian De Palma, gli interni di un cinema che proietta la copia unica e maledetta di un film che poi è possibile guardare per tutti i suoi venti minuti, l’esplorazione di una casa di riposo e dell’allagato bunker sotto le sue fondamenta che è pura arte del disorientamento.
Immagini in “live action”, quindi con attori veri, si mischiano con il digitale, la musica diventa narrazione, il suono si fa segnale di più realtà. E a proposito di musica, nessuno ha mai utilizzato delle canzoni in maniera così lucida e poetica per i fini del proprio racconto e delle immagini (solo Hideo Kojima in qualche momento di Death Stranding ) tanto che Alan Wake II diventa anche, ad un certo punto, un inno alla potenza salvifica del rock.
DIPINTO IN NERO
Talvolta afflitto da qualche bug in via di risoluzione (qualcuno di questi è stato addirittura non fastidioso, quasi interessante, anche quando ha bloccato il gioco ed è stato necessario riavviarlo) Alan Wake II è comunque travolgente per l’occhio con i suoi neri molteplici anche se contaminati dalla luce. Si tratta di una di quelle opere che permangono oltre la loro fine, lasciando un segno nella memoria, tatuandosi in qualche suggestiva, fantasiosa maniera sulla superficie dell’iride come il ricordo di uno sguardo involontario al sole.
Oltre al gioco e alle sue forme e metodi, chimerico nel suo essere corpo di più corpi assemblati con arte, Alan Wake II è l’horror più teorico e drastico degli ultimi anni, così straripante di concetti e idee da alimentare una lucidità insieme critica e allucinata. Una grande opera che utilizza il fantastico per trattare di cose che non lo sono affatto, sconnessa ma così vicina al reale, un cuore di tenebra illuminato e rivelato.