Federico Ercole per Dagospia
Il complicato quanto delizioso Cuphead (https://www.dagospia.com/rubrica-40/videogiochi/dagogames-by-federico-ercole-spinosa-meraviglia-fratelli-201671.htm) videogioco dei fratelli Moldenhauer di Studio MDHR uscito nel 2017 per Xbox e poi per macOS, Switch e Playstation 4, giunge su Netflix trasformato in ua serie animata e quindi depurato dei suoi dolori (per le dita dei giocatori meno virtuosi) mantenendo tuttavia il fascino antico del suo stile cartoonistico e della travolgente “sciocchezza” narrativa.
Essendo il videogame di Cuphead ispirato all’estetica e ai contenuti dei cartoni animati americani degli anni ’30, quelli di Dave e Max Fleisher (Koko il Clown, Betty Boop), alle Silly Symhonies di Disney e ai lavori anche non disneyani di Ub Iwerks (Flip the Frog), risulta naturale che, considerato il successo, quest’opera ritornasse nella forma e nella sostanza delle sue origini, un videogioco ispirato ai cartoon che torna ad essere un cartoon, portandosi dietro con il bello indiscutibile di quelle vetuste animazioni anche alcune criticità evidenti proprio nella loro tantata rimozione, quindi l’assenza di ogni esercizio critico verso l’utilizzo di innumerevoli stereotipi razzisti e di appropriazione culturale, il jazz per primo, presenti nelle fonti di ispirazione in maniera diffusa.
Se gli autori di Cuphead affermarono a proposito dello stile del gioco che si trattava “solo di elementi visivi e tutto il resto di quell’era non era influente”, aggiunge invece Yussef Cole in un notevole artiolo sui fantasmi razzisti del videogioco che “la verità può essere sporca ma è preferibile alla presentazione di un passato edulcorato pretendendo che non si smarrisca nulla nel procedimento”.
Insomma forse Cuphead il videogioco avrebbe potuto, oltre il riuscito recupero di un’estetica, di una superficie e alla sua travolgente giocabilità , riflettere anche sulle sue fonti e risulta interessante osservare come, nell’attuale metamorfosi in “vero” cartone animato, l’omino a testa di tazzina reagisca al suo essere oggetto di gioco rituffato nelle sue remote origine animate.
UNA SPASSOSA CRUDELTÀ’
Diviso in dodici episodi di un quarto d’ora l’uno, indipendenti ma connessi in una macronarrazione, Cuphead the Show è un corsa sfrenata attraverso un’insensata e stilosa galleria di situazioni spassose e crudeli a tema mefistofelico: nella colorata e multiforme isola Calamaio l’esuberanete Cuphead si gioca l’anima con il Satanasso durante un gioco nel Luna Park perenne di Cattivale (Carnevil in inglese) e suo fratello Mugman farà di tutto per aiutarlo, mentre il nonno a forma di teiera alimenta svariate e ulteriori comicità.
C’è la puntata “classica” con il neonato terribile e distruttore da accudire (il suo cappuccio, non capisco se sia voluto, ricorda un preservativo), il naufragio di un ferry-boat gestito da rane pugili, le verdure antropomorfe che si impadroniscono dell’orto, la rottura dei manici dei due protagonisti e le loro improbabili riparazioni, il quiz televisivo truccato.
Malgrado la negazione ovvia di ogni forma di interattività la serie ci fa giocare con gli occhi offrendoci numerose interessanti allusioni a dinamiche ludiche che non sono tuttavia quelle del videogame originale, fondato soprattutto sugli scontri con micidiali “boss”; ci sono invece inseguimenti, distruzione e ricostruzione di cose, travestimenti, oggetti speciali.
Non assecondare se non come immaginario il Cuphead videoludico e sfruttare quindi l’animazione per indurci a ragionare su altre forme del gioco è la caratteristica vincente di questa serie, soprattutto in un panorama di opere ispirate a videogiochi di successo che falliscono proprio perché ammiccano troppo astutamente sul materiale ludico che le ispirate, fallendo nel tentare di restituirlo sullo schermo.
UN POLICROMATICO TOUR DE FORCE COMICO
Se lo stile del videogioco di Cuphead, abbinato alla sua spietata difficoltà, favorì senza dubbio l’originalità e il carisma dell’opera, meravigliosa quanto punitiva, non si può definire invece originale la serie televisiva, perché già la stessa Disney con la serie Topolino, cinque stagioni dal 2013 al 2019, è tornata a illustrare le sue icone con lo stile degli anni ’30 del secolo scorso. Anche classici contemporanei come Spongebob soprattutto e il geniale Gumball a tratti fanno talvolta riferimento a quegli anni dell’animazione americana.
Tuttavia, sebbene non sia eccentrica e fresca come la sua matrice videogiocosa, la serie di Cuphead trascorre sorprendendo e divertendo grazie alle sue storie e alla sue tante forme, alle sue musiche avvincenti e, se lo vedrete in italiano, persino per un’ottima localizzazione di testi e canzoni.
Insomma, si tratta di un’opera d’intrattenimento più che pregevole, talvolta addirittura meravigliante, soprattutto per un pubblico di bambini magari assuefatti alle soporifere narrazioni di Peppa Pig e di tutta una serie di astuti, commerciali e pseudo educativi prodotti televisivi per minori. E poi chissà, magari i bambini vorranno provare il videogioco, con le loro dita e i loro riflessi avranno ottime possibilità di sconfiggerlo senza soccombere alla sua favolosa perfidia.
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