Federico Ercole per Dagospia
Trials of Mana, ecco un altro “remake” dopo quelli colossali di Resident Evil 3 e Final Fantasy VII e prima del venturo Xenoblade, così che i mesi perduti della quarantena potranno essere ricordati dai videogiocatori come quelli del recupero ludico, del restauro di grandi esperienze antiche mentre il nuovo esita cedendo alla crisi, della revisione sovrapposta al ricordo fino quasi a cancellarlo.
Trials of Mana è un rifacimento più poverello e sgraziato, come il celebre anatroccolo, rispetto agli altri citati ma tra tutti il più necessario, ridisegnando un videogame del 1995 per Super Nintendo che non fu mai distribuito oltre il Giappone, sebbene fosse il seguito di quella perfetta esperienza cooperativa fantasy che è Secret of Mana.
Così Seiken Densetsu 3, il nostro Trials of Mana, è rimasto a lungo un sogno impossibile per tanti giocatori occidentali, salvo per chi lo visse “illegalmente” con gli emulatori e la traduzione amatoriale dei fan. Un desiderio giocoso frustrato fino all’anno scorso, quando la Mana Collection uscì per Switch in tutto il mondo, una raccolta che include l’edizione originale di Trials of Mana, un gioco che si è rivelato ancora meravigliante con la sua policromia isometrica a 16 bit, il racconto corale e le musiche di Hiroki Kikuta, ma non eccelso quanto il suo predecessore e penalizzato da menù astrusi e contorti che infrangono il ritmo dell’azione e dell’esplorazione, persino il tono epico.
Sebbene sia evidente che il remake di Trials of Mana, appena uscito per PlayStation 4 e Switch, sia una produzione che Square-Enix ha condotto mirando al massimo risparmio e con fretta, eliminati quegli infelici menù del gioco del 1996 e implementandone di nuovi, risulta invece un’esperienza ludica migliore dell’originale, un gioco di ruolo d’azione che alimenta nostalgie e coinvolge nella sua variazione, non trasvalutazione, del classicismo avventuroso del tardo secolo scorso.
È vero, talvolta sembra di giocare un videogame della scorsa generazione, roba da PlayStation 3, ma che importa della grafica quando è comunque ricca di particolari e pittorica più di tanto anonimo realismo ultra-definito, o c’è un sistema di combattimento più divertente e appagante di molte produzioni colossali e più blasonate. Ma, soprattutto, quando ci si riesce ancora a smarrire per qualche decina di ore in un avventuroso nuovo e vecchio incanto, per non ritrovarci nelle spaventose e tediose nebbie del presente.
SEI STORIE PER SEI EROI
Nella mitologia della saga inventata da Koichi Ishikawa una dea creò il mondo distruggendo otto bestie ancestrali grazie ad una spada magica di sua invenzione, poi si trasformò in albero e si assopì, lasciando che la lama giacesse piantata tra le immense radici. Trials of Mana comincia con l’incanto che si dissolve e un complotto malvagio per il ritorno apocalittico dei mostri.
Dobbiamo scegliere di iniziare il gioco con tre tra sei protagonisti, cosicché l’evoluzione della trama è variabile in base alla nostra decisione. Non si tratta di una scelta facile perché il sestetto è accattivante e vario, eroi elementari caratterizzati con semplicità e nel contempo con profondità, stravaganti e scontati, quindi esemplari, come tanti personaggi del fantastico: un ladro come Robin Hood accusato ingiustamente, un giovane principe licantropo, un’amazzone orfana in cerca del fratellino, una bimbetta petulante e tenerissima, una maga di algidi regni, il guerriero mercenario ma idealista.
Il valore e la longevità di Trials of Mana risulta amplificato dalla possibilità di ricominciare il gioco, (già lungo sulle quaranta ore) con un altro terzetto, perché così variano i termini dell’esplorazione e soprattutto delle modalità di affrontare i combattimenti, cambiano le micro-narrazioni ma muta non troppo l’intreccio principale.
Dunque si viaggia per foreste, deserti, ghiacciai, vulcani, città d’ogni foggia, manieri cadenti, navi fantasma e praterie, spazi che possono superficialmente sembrare sciatti ad un occhio viziato da investimenti tecnologici milionari ma che possiedono invece una loro vecchia poesia e sono architettati in maniera da risultare sempre interessanti e labirintici da esplorare, premiando con la scoperta di un panorama dall’inattesa beltà o con preziosi tesori.
Combattendo con centinaia di nemici diversi e maestosi, enormi “boss”, si sale di livello senza mai annoiarsi grazie alla bontà del sistema di combattimento, veloce e spassoso, fino a cambiare classe e potenziare i personaggi con una sfilza di abilità. Si trascorre immediatamente da un personaggio all’altro con la pressione del tasto dorsale, ma a differenza del gioco originale non c’è purtroppo l’opzione della cooperativa locale; sarebbe stato bello ancora una volta condividere un’avventura di Mana con qualcuno vicino.
UN CLASSICO DIVERTIMENTO
Malgrado la sua veste relativamente moderna, perché come già sottolineato non si tratta di un prodigio tecnologico, Trials of Mana è un gioco classico in maniera drastica, e ciò non significa che sia “vecchio”. Si tratta di un remake che dimostra come non siano sempre necessari milioni e sei anni di sviluppo per comporre un’avventura virtuale degna di essere vissuta e amata.
È probabile che una volta cominciato, se vi appassiona il suo genere, non riusciate più ad abbandonarlo avvinti dalla sua sequenza ininterrotta di novelle, musiche e azioni, anche se ancora stregati dai fasti e dalle emozioni di Final Fantasy VII Remake, opera assai meno distante da Trials of Mana e le sue dinamiche ludiche di quanto si possa supporre, non solo per la condivisione della stessa compagnia di sviluppatori e di un tappeto storico.
Trials of Mana ci fa tornare più giovani, forse ingenui, ma lo fa con una certa purezza, con l’espressione non velata dei suoi valori o delle sue criticità ludiche, convincendoci o disilludendoci subito, senza ingannarci su che gioco vuole farci giocare. Non si odia e si ama Trials of Mana, perché o lo si ama o lo si odia, ma nel caso di amore si tratta davvero di un appassionato, dolce sentire.