Federico Ercole per Dagospia
Ancora una volta sono soccombente, dopo quasi un’ora trascorsa ad accumulare lesto i gialli oboliti, utili sfere d’energia rilasciate da mostri eterei bio-meccanici che se non le raccogli in fretta si dissolvono e hai ucciso le creature, con fatica e concentrazione tesissima, per niente. Avevo persino una ricarica per la vita e un parassita che amplificava le mie abilità di sparatore senza avvelenarmi con avarie virali troppo fastidiose, ma ho sbagliato arma, mi sono lasciato tentare da un fucile del terzo livello quando avrei dovuto accontentarmi di un mitra del secondo, più utile per colpire con velocità di fuoco ed efficacia da distanza. Così realizzo, quando manca poco per eliminare un ET magro, alto e mostruoso in un uragano di raggi e flagelli luminosi letali, di stare per morire, di avere di nuovo fallito e così è, la fine, ecco che soccombo.
Ricomincia tutto da capo e questa volta al “boss” neanche ci arrivo, massacrato lungo l’imprevedibile, cangiante via che mi dovrebbe portare alla sua sotterranea caverna, sconfitto di nuovo, questa volta per colpa di creature vagamente vegetali che sparano sostanze appiccicose; meglio non sparargli a quelle, ma attaccarle con la lama, capirò dopo, ed è meglio, sono più bravo con le spade che con i fucili.
E’ trascorsa più di una settimana da quando vago disperato nella spietata gabbia dell’eterno ritorno di Returnal, esclusiva per Playstation 5 dei finlandesi di Housemarque, già autori di infernali meraviglie di proiettili come Resogun o Alienation ma qui trascorsi nel reame dei colossal, senza tuttavia negare al pubblico la severità frenetica delle loro precedenti opere. Una settimana durante la quale ho completato solo due dei sei “biomi” che compongono Returnal in 56 tentativi e quasi venti ore di gioco.
Avrei quindi potuto decidere di lasciare con rabbia e frustrazione quest’opera così punitiva, che mi costringe ogni volta a ricominciare da capo, ricombinandosi come i cubi di plastica della costruzione di un bambino di tre anni dal genio architettonico e già un poco sadico, ma non ci riesco, perché il suo fascino fatale mi ha sedotto dopo pochi minuti, i suoi suoni, le sue immagini, le sue storie, i suoi mostri e il suo mistero, persino la sua difficoltà.
E ogni volta che pensavo di lasciare, frustrato da un’inevitabile morte, condannato all’incertezza di una ripetizione che è più che altro una variazione, ecco un colpo di fortuna, un’illuminazione, la scoperta, un’improvvisa e insperata vittoria. Così che lento proseguo, verso la fine, per spezzare le catene dell’eterno ritorno, componendo frattanto un maestoso e crudele affresco fantascientifico.
NAUFRAGIO SU ATROPO
Sono Selene, astronauta sopravvissuta ad un atterraggio di emergenza. Lascio il rottame della mia astronave e mi ritrovo sotto la pioggia fitta che bagna la selva e i ruderi di un pianeta conosciuto come Atropo, dal nome di una delle tre Moire, o parche, che significa “irremovibile”, quella che taglia il filo della vita assegnato ad ogni essere, secondo il mito. Muovo i primi passi per questo mondo alieno, meravigliandomi, dall’esterno rassicurante nel quale videogioco, dell’eccezionale panorama sonoro e sensoriale edificato dalle tre dimensioni dell’audio e dalle vibrazioni del controller Dual Sense di PS5, oltre che della contorta bellezza in altissima definizione di quel mondo.
Ecco però una bestia tentacolata, non posso reagire, muoio, per la prima volta. Ma il filo non è reciso, e non si tratta di un semplice Game Over, torno in vita ricordandomi della mia morte, ogni volta, prigioniero di un tempo che si riavvolge sempre. Ogni volta che ci estinguiamo dobbiamo quindi ricominciare da capo, mantenendo solo i potenziamenti fondamentali, tuttavia è sempre diverso: gli spazi si ricombinano tracciando mappe nuove, i nemici mutano così come gli oggetti e le armi, talvolta può andare bene, talvolta può andare male.
Se va proprio bene, con un misto di fortuna e intelligenza adattativa, allora si arriva al “boss” e lo si può eliminare definitivamente, sbloccando una nuova regione. Altrimenti tutto da capo, sebbene ogni “ritorno” abbia il suo valore ludico e formativo unico. Inoltre durante i tentativi è possibile scoprire nuovi dettagli narrativi, approfondendo così la storia di Selene e di questo luogo infausto, ascoltando le inquietanti e didattiche testimonianze registrate dalle “selene già morte”.
Il genere di Returnal è quello detto “roguelike”, tornato recentemente in voga con l’indimenticato Hades, proprio quello in cui si ricomincia sempre, una cosa di nicchia qui invece in un formato milionario; tuttavia così come nella fuga dall’Ade di Zagreus, il “loop” è giustificato, esaltato dalla narrazione che muove il coinvolgimento del giocatore. Quello di Returnal è un racconto assai più ermetico di quello di Hades, ma con i suoi misteri muove le leve della passione, ci spinge ad andare oltre i nostri limiti e ad impadronirci delle eccellenti dinamiche ludiche necessarie per sconfiggere il gioco.
ADATTAMENTO ALIENO
Catturato dalla sua spirale di Duchamp, condannato dalla bellezza aliena di immagini e suoni, non addomesticato dalla sua crudeltà, io non riesco a lasciare Returnal, che diviene sempre più avvincente, non negando mai sorprese, amare o esaltanti che siano.
Continuo a morire e rinascere, ma mi estinguo sempre meno, imparando ad adattarmi, a improvvisare e a riconoscere la fortuna, quando capita, assecondandola. Mi sembra che il gioco diventi più facile, premiandoci con bonus permanenti dopo ogni vittoria, ma sono io che sto diventando un indigeno di Atropo qando prima ero solo uno sprovveduto turista, sto imparando un linguaggio alieno.
Esempio luminoso e coraggioso della nuova generazione di Sony, Returnal non è un gioco per tutti e non solo perché le Playstation 5 continuano ad essere troppo rare; ma neanche Demon’s Souls era per tutti e ora i suoi epigoni vendono milioni di copie, permanendo difficili e punitivi.
Sono lungi dal finire il mio viaggio su Atropo, perché dopo un’ultima notte quasi insonne prima di scrivere queste parole non sono giunto che a metà del percorso (ma il tempo è relativo nella prigione dell’eterno ritorno); ma posso tuttavia affermare che quanto vissuto finora è un’esperienza terribile e irrinunciabile, severa ed educativa, da vivere con umiltà e coraggio, sperando nel fato o maledicendolo, programmando e improvvisando, disperando e godendo. Non cerchiamo questo in un videogioco, oltre il divertimento, il virtuosismo o l’agonismo? L’illusione, quasi la convinzione, di vivere un’altra esistenza con le sue gioie e i suoi dolori? Ancora e ancora, in una relativa e fittizia, consolante, eternità.