Federico Ercole per Dagospia
Nei racconti di Howard Phillps Lovecraft non c’è quell’orrore truculento al quale ci hanno abituato contemporanee, o quasi, riletture cinematografiche, alcune comunque ottime come quelle di Brian Yuzna, Stuart Gordon e Richard Stanley, sebbene paradossalmente il film più “lovecraftiano” se non dichiarato rimanga l’efferato, gelido e sublime La Cosa di John Carpenter, con le sue allusioni a Le Montagne della Follia e ai suoi terrificanti Shoggoth, pseudo-amebe in grado di cambiare forma e generare arti o appendici.
O almeno, non c’è mai “troppo” orrore truce inteso nella sua illustrazione splatter salvo in rari scritti, come quello sul rianimatore di cadaveri Herbert West, ma ci sono sgomento e terrore di fronte all’inconcepibile, lo sconvolgimento interiore di una rivelazione devastante, il brivido della scoperta che diviene panico e talvolta persino la meraviglia per un altrove che nella sua assoluta disumanità rivela una contorta bellezza onirica e straniante.
C’è inoltre un sentimento avventuroso, in tanti lavori dello scrittore di Providence, sebbene l’avventura tenda a precipitare sempre e in maniera irrecuperabile nella disavventura.
I videogiochi devono molto alle intuizioni e alle invenzioni di Lovecraft, soprattutto quando non ispirati in maniera diretta ai suoi scritti ma all’estetica fantastica delle loro visionarie creature -è sufficiente pensare a Bloodborne- tuttavia anche questi conservano per lo più l’aspetto orripilante e alieno di questa letteratura, il tremito che sorge dall’orrore cosmico.
Inoltre in titoli dall’evidente richiamo lovecraftiano, come Call of Cthulhu, sembrano inevitabili i compromessi tra racconto e videogame, così inevitabilmente si spara e si combatte, cosa quasi del tutto assente e per questo “strana” nell’opera di Lovecraft.
Ecco invece Call of The Sea, uscito per Microsoft Windows e le console Xbox (c’è già sul Game Pass), un videogame che riesce a restituire la dimensione sognante tra stupore e incubo, l’andamento avventuroso, la tragedia intima oltre che universale e le ritmiche dell’indagine sospesa tra logica e allucinazione di tanti racconti di Lovecraft, che il compianto Giuseppe Lippi definì “un Odisseo smarrito come un personaggio delle Metamorfosi, il suo corpo gli è alieno e muta continuamente, assumendo forme mostruose, la mente è consapevole del dolore ma ne rifugge, cerca di scantonare”.
ENIGMISTICA DEL FAVOLOSO
Sviluppato da Out of the Blue, Call of The Sea è un’avventura esplorativa in prima persona dove non c’è alcuna azione offensiva ma studio sistematico e risoluzione di enigmi, quindi racconto interattivo, esplorazione e riflessione. Siamo negli anni ‘30 del secolo scorso e la protagonista tramite la quale si agisce è Norah Everhart, un’insegnante di arte afflitta da un raro morbo dall’evoluzione lenta ma inesorabile.
La donna è in cerca del marito scomparso in viaggio nei mari del Sud al fine di trovare una possibile cura per l’afflizione dell’amata . Ci svegliamo dopo strani sogni liquidi nella cabina di una nave che ci sta trasportando verso l’ultima meta nota del marito e poco dopo, soli, approdiamo su un’isola dalla rigogliosa vegetazione tropicale per conoscere il fato del coniuge scomparso e dei suoi compagni di viaggio.
La sintetica e allucinata promenade sull’isola è interrotta da enigmi congegnati con rigore, alcuni complessi ma non troppo, che richiedono soprattutto una mentalità artistica più che matematica; spesso ci è richiesto di interpretare simboli o fregi, di interagire con le forme, di ragionare con la musica. Frattanto riveliamo, tramite una frammentata ed efficace componente narrativa, il fato degli sventurati personaggi approdati sull’isola, la presenza di immani e divine creature ittiche e il segreto della malattia di Norah.
La tensione è sottile, vaga, mai procurata dall’effetto immediato e quindi dimenticabile, ma alimentata dai segni, dalla progressiva conoscenza; mentre la paura per l’ignoto è suggerita, non mostrata nuda e disadorna. Siamo sospesi tra uno splendore liquido-vegetale e la trama mostruosa che si intravede tra palme, bianche spiagge, relitti, antiche vestigia indigene, disumane architetture e liquami senzienti di un’intelligenza incomprensibile.
Ci vogliono poche ore per terminare il viaggio rivelatore, cosmico e intimo di Norah ma dipende dalla velocità nel risolvere gli enigmi. Un consiglio, se avrete qualche difficoltà che, sottolineo, non dipende dall’intelligenza quanto dalla voglia di osservare e agire, non cercate le soluzioni in rete ma lasciate che l’enigma vi accompagni anche oltre il videogame, pensateci camminando o mentre state per addormentarvi. Fa parte del gioco ed è una delle sue cose più belle, che vada oltre la virtualità.
TRA DAGON E INNSMOUTH
Come tante altre cose, soprattutto se stesso, a Lovecraft non piacevano troppo i pesci e le altre creature marine, e in Call of the Sea tornano soprattutto le divine abominazioni ittiche di Dagon e le mutazioni de La Maschera di Innsmouth. E mentre l’orrore è sussurrato, lo interiorizziamo e lo accettiamo, senza urla di terrore ma con un gemito.
Call of the Sea è l’omaggio a Lovecraft più lirico e riflessivo, forse addirittura il più giusto, un racconto interattivo che ci rivela, citando ancora Lippi, che la risposta di Lovecraft alla fatale questione sulla cosmica malvagità delle forze universali è la stessa di Giacomo Leopardi: la natura e ciò che concepiamo come innaturale, solo perché alieno o irrazionalizzabile, non è maligna ma solo indifferente.