Federico Ercole per Dagospia
Fu lecito domandarsi sulla necessità di un rifacimento totale di quell’opera d’arte dell’avventura horror che fu Resident Evil 4, uscito per Game Cube Nintendo nel 2005 per rivoluzionare con la potenza delle sue intuizioni la saga di Capcom e non solo, divenendo un paradigma per tutta l’azione ludica successiva. Ridisegnare un capolavoro è cosa assai rischiosa, soprattutto quando questo resta tuttora esemplare, mantenendo la sua importanza storica e dimostrandosi un fertile terreno di divertimento nella sua forma originale.
Tuttavia Capcom ha compiuto una specie di miracolo nell’ardua impresa di riscrivere l’esperienza epocale concepita da Shinji Mikami e bastano pochi minuti dentro il nuovo gioco per deliziarsi in un’impressione attonita di “dejà-vu” incrinato, rotto in una sorpresa squilibrata tra certezza e incertezza che è tale da alimentare freschi brividi nella ricorrente memoria di quelli antichi e sopratutto di ripristinare, esaltandolo, quello spasso travolgente proposto dal videogame di diciotto anni fa.
E’ come ascoltare per anni la stessa esecuzione magistrale di una grande sinfonia, ad esempio la nona di Bruckner eseguita da Karajan, quando ecco che si scopre la versione di Giulini, con i suoi tempi dilatati all’estremo, fino a deformare in maniera sublime l’edificio musicale che rammentavamo senza tuttavia che la partitura in effetti sia cangiata. Sono infatti davvero minimali le variazioni di contenuto significanti di Resident Evil 4 Remake che risulta assai rispettoso, addirittura amoroso, nei confronti dell’originale.
Ma oltre lo splendore tecnologico della realizzazione e la sublimazione delle meccaniche ludiche reinterpretate dalla fonte si colgono un’attenzione rigorosa alla ritmica di questa, uno studio appassionato e certosino dal quale scaturisce una nuova visione dell’insieme, un’interpretazione intesa appunto come il lavoro soggettivo di un direttore d’orchestra su uno spartito, nella quale è ribadita la grandezza seminale e universale dell’opera prima e nel contempo si propone una nuova, straordinaria visione.
Insomma Resident Evil 4 nella sua nuova, terrificante quanto splendente veste permane una festa raccapricciante, un meccanismo addirittura perfetto del divertimento, il tunnel dell’orrore definitivo. E se scegliete (ve lo consiglio) di giocarlo in modalità “estrema” questo Remake diviene un’esaltante sofferenza, gioia e dolore orchestrati insieme in una monumentale, forse impareggiabile, avventura interattiva del brivido e della sopravvivenza.
UN “RIDENTE” VILLAGGIO NELLA SPAGNA RURALE
Interpretiamo l’ancora giovane (ma incupito dagli orrori di Raccoon City esperiti quand’era recluta in Resident Evil) Leon S. Kennedy, ora agente per conto del presidente degli Stati Uniti al quale è stata rapita la figlia, un po’ come in Escape from LA di John Carpenter; d’altronde si tratta comunque di un gioco profondamente carpenteriano, soprattutto nel dissimulare questioni sociali e meditazioni politiche nel tessuto dell’orrore e nell’andamento spettacolare dell’azione. La povera Ashley è scomparsa in una fittizia zona rurale della Spagna così Leon vi si reca per precipitare subito nell’orrore.
Ma egli nella missione per salvare la fanciulla (qui assai meno “sprovveduta” che nell’originale) non incontrerà morti viventi convenzionali, ma invasati che ricordano i “crazies” di Romero, mentre permangono nel gioco numerose disgustose abominazioni e mutazioni. I contadini e le contadine, i monaci e tutti i miserabili popolani intossicati e convertiti da una malefica nobiltà, sono letali e spaventosi, implacabili con la loro nuova intelligenza artificiale, dapprima intontiti e bofonchianti minacciose frasi in spagnolo e poi veloci e letali quando ci scoprono, sembrano davvero organizzati.
Quindi ce ne andremo per boschi e villaggi, per caverne e miniere, per spiagge paludose e castelli cormaniani, per tetre isole industrializzate e laboratori infernali affrontando un crescendo di nemici sempre più minacciosi e mostruosi, risolvendo qualche enigma e tentando di ottimizzare le risorse perché soprattutto in modalità “estrema” i proiettili sembrano sempre non bastare mai. Tutto ciò parrebbe convenzionale ma non lo è proprio per la ritmica eccezionale degli eventi, per la successioni di spazi e situazioni, una climax dopo l’altro.
Un assedio micidiale, l’assalto di due invasate armate di motosega, un energumeno che si trasforma in insetto mostruoso, catapulte fiammanti, creature non vedenti artigliate in oscuri sotterranei, armature possedute da parassiti... Si continua così fino alla fine, senza sosta, con un equilibrio sconvolgente e gratificante che spinge a superare ogni sconfitta per il desiderio di andare oltre, di soffrire e godere di nuovo. Non ci sono che rarissime ripetizioni, comunque esilaranti, ma c’è quasi sempre una novità, una sorpresa che resta tale anche se già si conosce l’originale.
RELIGIONE E SCIENZA
Resident Evil 4 Remake mantiene la critica verso un fondamentalismo mistico, ponendo ancora di più l’accento rispetto all’originale sulla pericolosa e paradossale miscela tra la religione e la scienza medica, risultando oltremodo attuale. Lo sventurato popolo di El Pueblo è vittima della propria fede indotta da orripilanti esperimenti scientifici, perde la propria identità, diviene schiava di una disgustosa aristocrazia con mire egemoniche.
C’è quindi della profondità, non solo un carnascialesco orrore, una meditazione sul popolo come cavia che non assume le tinte sguaiate e fallaci di un moderno complottismo, ma ricorda le non troppo antiche tragedie connesse a terribili errori farmaceutici, come avvenne con il Talidomide in America durante gli anni ’50, un farmaco poi ritirato che contribuì alla nascita di numerosi bambini affetti da focomelia.
Capolavoro sul capolavoro, Resident Evil 4 Remake è un “tour de force” nell’orrore che non esclude mai l’ebbrezza liberatoria dell’avventura, tanto da emanciparsi dal genere horror per risultare una delle imprese videoludiche più divertenti e giocosamente emozionanti che si possano esperire, oltre che un lungo e vertiginoso succedersi di magnifiche, inquietanti visioni sospese tra la lentezza di lunghe camminate “metafisiche” in piano sequenza alla Bela Tarr, le geometriche frenesie coreografiche di John Woo e le tensioni brutali, classiche e calcolate di John Carpenter.