Federico Ercole per Dagospia
In musica “imitazione” significa che un tema esposto da uno strumento è in seguito replicato da un altro in una maniera più o meno identica, perché questo può essere soggetto a cambiamenti non solo timbrici ma armonici o melodici. Nel caso la replica del tema fosse pedissequa si tratta di un’imitazione detta “stretta”. Nel corso della sua storia il videogioco parrebbe essersi evoluto proprio secondo l’imitazione sebbene, in maniera diversa dalla musica, la ripetizione sia distribuita per opere diverse anziché nell’ambito di un singolo brano.
Così si è indotti a pensare il gioco elettronico come un insieme organico di opere connesse, non disgiunte, associate non solo dall’esperienza del giocatore ma da temi, estetiche, azioni, regole che si prolungano e trasferiscono da un videogame all’altro edificando un immenso corpo ludico. Tuttavia nell’imitazione c’è una originalità, sia questa solo una quasi impercettibile mutazione, una differenza che sembrerebbe minima ma è fondamentale come quei due cromosomi in meno nelle cellule diploidi che distinguono gli esseri umani dai grandi primati.
Muove a queste riflessioni tra musica e genetica la fruizione di The Last Faith di Kumi Souls Games per Nintendo Switch, PlayStation, Xbox e PC, un gioco composto e sorretto da una serie di imitazioni talvolta quasi strette e che non sembra inventare nulla nel suo essere così derivativo. Ma nella sua imitazione di innumerevoli titoli, nella sua superficiale assenza di diversità, The Last Faith funziona assai bene, un’imitazione quindi nella sua più riuscita accezione musicale, laddove una frase melodica esprime una eccentricità anche nella replica.
In The Last Faith, un altro esemplare di “metroidvania” in due dimensioni, ci sono un game design, una direzione artistica e delle meccaniche già esperite decine di volte dai tempi di Super Metroid a Castlevania Symphony of the Night, le due opere che hanno definito questo sottogenere di giochi d’azione e avventura. Alle regole e alle forme “metroidvania” di The Last Faith si aggiungono elementi imitati dai “soulslike” (altro sottogenere questa volta sorto da Demon’s Souls e Dark Souls di From Software) ma in un contesto 2D, come già visto in Salt & Sanctuary, Hollow Knight o Blasphemous. Ma tutto ciò che si è già “sentito” in The Last Faith è, ribadisco, imitato con arte, così da non suscitare mai indifferenza o noia e l’opera di Kumi Souls Games risulta infine nell’ennesima grande avventura, sia solita che insolita, in un altrove orripilante, spaventoso e gratificante.
IL VIAGGIO LUGUBRE DEL DOLENTE ERYC
Si diventa Eryc divenuto schiavo del dolore, prigioniero della solitudine, uno di “quelli che a malapena riescono ad esistere”, un eroe maledetto che assomiglia non troppo vagamente a Gabriel Belmont di Castlevania Lords of Shadow. Ci si trova trova a Mythringal, città che rimanda con le sue architetture gotiche, infrante, grandiose e decadenti alla Yarnham di Bloodborne, l’opera più sanguinaria e oscura di From Software e “Soulslike” che più ha ispirato The Last Faith. Qui è tutto corrotto, piagato da una malattia mortale, spaccato dalle guerre tra i prelati e gli ordini di una chiesa che “nutre pregiudizi contro la sua stessa congregazione, che risucchia le speranze di tutti...”.
Nella sua ascensione suppliziante e violenta verso la verità e la disfatta del male, Eryc combatte contro una pletora di nemici di varia natura mostruosa, umana o divina, utilizzando magie, armi da sparo, spadoni, asce, mazze. Nel frattempo si esplorano vaste e tortuose aree nella maniera non lineare ma radiale dei “metroidvania”, la cui progressione dipende dai potenziamenti per raggiungere zone prima non accessibili. La qualità pittorica degli ambienti, siano essi selve, paludi, cattedrali, catacombe, ghetti, cime innevate o cimiteri è degna di nota, così come il disegno degli innumerevoli e vari nemici.
In Last Faith ci sono inoltre alcune suggestive missioni secondarie i cui mandanti sono personaggi folli, disperati e carismatici, macabre imprese opzionali come quella di trovare i “mai nati dell’aristocrazia di mezzanotte”, feti disseccati ridotti a decorazione.
C’È SEMPRE BISOGNO DI GIOCHI COME QUESTO
The Last Faith, malgrado possa essere ostico soprattutto quando si tratta dei “boss”, alcuni dei quali si trasfigurano in una forma ancora più punitiva e minacciosa proprio quando ci si illude di averli sconfitti, si gioca con efficacia e senza frustrazione grazie ad un più che valido sistema di potenziamenti e salita di livello. La musica è funzionale ai tetri panorami, contrappuntata dai suoni abietti delle creature e quelli agonizzanti di una natura che muore (persino la pioggia risuona stanca) e di una metropoli malata terminale.
Se qualcuno si chiedesse quanto The Last Faith sia necessario tra i tanti esempi del suo sottogenere di appartenenza, alcuni dei quali sono capolavori, risponderei senza indugio che c’è sempre bisogno di un’altra lunga, faticosa ed esaltante epopea realizzata con tanto stile e passione, perché quando si è “dentro” al gioco ci si dimentica dell’imitazione per essere in un mondo nuovo anche se familiare, con una consapevolezza assai simile a quella di un turista che visita New York e poi Los Angeles, metropoli uniche sebbene in fondo non siano che due città americane.
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