Federico Ercole per Dagospia
Non ci sono demoni e mostri nella Tsushima dell’undicesimo secolo traslata da decenni di cinema giapponese dalla statunitense Sucker Punch, solo esseri umani. Nessuna magia ma scienza, nessun super-potere, soltanto disciplina.
Siamo dunque lontani dai territori magici e terribili dell’antico Giappone di videogiochi come Onimusha, Nioh e Sekiro, restando tuttavia sempre nell’ambito di una narrazione che malgrado il pretesto storico non restituisce alcun realismo, anche rinunciando al mito, perché appunto immaginata a partire dal cinema, già effimera materia favolosa che reinventa il passato mettendolo in scena.
È quindi indicativo che sia una compagnia di sviluppo occidentale a volerci raccontare un frammento del passato giapponese con una pretesa di storicismo, quando le ultime produzioni nipponiche con una simile cornice si sono affidate alle simbologie della mitologia, perché dimostra un’ingenuità dello sguardo, l’idea che decenni di grande cinema nipponico a proposito dei samurai ci abbiano mostrato sullo schermo qualcosa di “vero” e non sia invece una favolosa e romantica elaborazione della storia, la “propaganda” poetica moderna di un eroico passato non dissimile a quella operata nei poemi rinascimentali che celebrarono la cavalleria.
Ma questa ingenuità non è di fatto negativa perché acritica, si tratta infatti di uno sguardo meravigliato alimentato da un cinema immenso al quale è inevitabile credere finché dura il film, perché il suo scopo non è ambire alla cronaca del passato o essere plausibile e manualistico, ma indurci a meditare sull’umano e la natura in termini universali. Poi che tra le ombre e le luci dell’immagine cinematografica, così come tra i pixel di un videogioco, si intraveda anche la Storia è cosa ovvia, ma questa è da interpretare come lo psicanalista interpreta un sogno.
Così è dunque per Ghost of Tsushima di Sucker Punch, ultima esclusiva per PlayStation 4, la più romantica opera elettronica sui samurai e nel contempo canto d’amore per il cinema di Kurosawa, Kobayashi, Mitsoguchi, Okamoto, Inagaki...
QUANDO I MONGOLI INVASERO IL GIAPPONE
Ghost of Tsushima si svolge alla fine del 1230, le navi di Khotum Khan, un immaginario parente di Gengis, vomitano orde di invasori sulle coste giapponesi. Un solo samurai si distacca dall’esercito indigeno per affrontare il comandante nemico con la katana sguainata, secondo le regole del codice Bushido, ma l’avversario lo bagna di un liquido infiammabile e gli dà fuoco con la stessa presuntuosa noncuranza di quando Indiana Jones spara allo spadaccino virtuoso ne I Predatori dell’Arca Perduta.
Dopo questo preludio la difesa giapponese crolla sotto l’avanzata mongola e ci troviamo nell’armatura infranta di Jin Sakai, che un tempo vide uccidere impotente e terrorizzato il padre e da allora giurò di seguire la più nobile via del samurai. Comincia così un videogioco lunghissimo e dilatato lungo gli spazi di un vasto mondo aperto, da giocare con lentezza perché la velocità lo penalizza, causa incomprensioni, ci nega molta della sua profondità, spesso celata nei dettagli, nell’opzionale delle missioni secondarie.
Esploriamo ambientazioni di quasi esasperata amenità pittorica, un’ostentazione di bellezza che serve ad amplificare la bruttezza della guerra e della distruzione con una distinzione che è manichea ma senza dubbio efficace nell’alimentare la fascinazione del giocatore, nel trasformare l’esplorazione in un viaggio estetico tra la continua meraviglia di un panorama incantato e dolorosamente spezzato.
Ci sono tante storie struggenti e esemplari in Ghost of Tsushima, quadri di vita tra boschetti dorati, selve illuminate dalle lucciole, cascate cristalline che si trasformano in quieti fiumi argentati dalla luna, pianure di erbe e fiori arse da albe e tramonti che paiono eternarsi. Storie con personaggi memorabili, piccole e grandi tragedie di dolore, lutto e miseria che sono digressioni dallo straordinario valore diegetico sebbene si risolvano quasi sempre seguendo lo schema “cerca e distruggi”.
Come ogni videogioco “open world” anche Ghost of Tsushima è inevitabilmente ripetitivo ma qui ci sono attività secondarie utili a potenziare il protagonista di rara qualità lirica: seguire le volpi che ci conducono a remoti altari dove pregare, comporre haiku, suonare melodie al flauto, tagliare canne di bambù eseguendo complesse combinazioni di tasti, giacere meditando bagnati dalle acque termali.
E ogni viaggio, a piedi ma per lo più a cavallo, è portato a termine seguendo il vento poiché è questo, una grande idea ludica e poetica, a guidarci verso l’obiettivo. Insieme ai comunque inarrivabili Legend of Zelda Windwaker e Flower, Ghost of Tsushima è il gioco più ventoso di sempre. Dispiace che l’andatura del nostro cavallo sia solo lenta o velocissima, delle modalità intermedie avrebbero giovato all’esplorazione.
NON SOLO KUROSAWA
Da giocare rigorosamente in giapponese sebbene doppiato anche in italiano, Ghost of Tsushima può essere esperito anche in bianco e nero con il cosiddetto filtro “Kurosawa” che da vita ad un’ancestrale suggestione cinematografica. Il nome del filtro è ovviamente solo simbolico perché non c’è solo il cinema di Kurosawa e neppure solo quello giapponese (non dimentichiamoci che il regista di Ran e Dodeskaden adorava John Ford) ma quello di tanti altri registi più o meno noti.
Inoltre i colori accesissimi di Ghost of Tsushima rimandano alle pellicole degli anni ‘50 sui samurai di Hiroshi Inagaki e ai cromatismi più recenti di Lady Snowblood di Toshiya Fujita o di Zatoichi di Kitano Takeshi. Insomma Ghost of Tsushima è un contenitore di tanto cinema, cercatelo e soprattutto usate il gioco per farlo, in bianco e nero o a colori, mettete in scena i vostri ricordi di immagini filmiche.
LA TOMBA DELL’ONORE
Il protagonista di Ghost of Tsushima non è un carattere bidimensionale e vuoto, ma un personaggio tormentato dal suo passato e in crisi con il suo presente. Un samurai non è un fantasma, al limite lo spettro è lo “shinobi”, così il momento in cui Jin dovrà uccidere per la prima volta pugnalando alle spalle il nemico risulta davvero traumatico e viene raccontato con drammatica enfasi: il tradimento di se stessi e dei propri più alti principi, la tomba dell’onore dal quale nasce la morte vivente della necessità.
Combattere è un’attività fondamentale in Ghost of Tsushima e può risultare derivativa o ripetitiva in una fase iniziale, rivelando invece una sua dignità e unicità dopo diverse ore. Ci si potrebbe lamentare, come molti hanno fatto, della mancanza di un’opzione per bloccare gli attacchi su un solo nemico, il cosiddetto “lock-on”, ma in questo gioco ciò sarebbe disastroso perché bisogna imparare a muoversi con velocità e fluidità da un nemico all’altro, cambiando rapidamente lo stile di battaglia in base all’arma brandita dagli avversari che tendono ad attaccarci tutti insieme. È vero che senza “lock-on” si rischia di perdere la corretta inquadratura dell’azione ma è importante imparare a controllare con correttezza e precisione la macchina da presa virtuale, d’altronde non abbiamo scritto che Ghost of Tsushima è anche un gioco sul fare cinema?
Meno suggestivi risultano i segmenti “stealth”, perché i nemici sembrano fare apposta a darci le spalle, mentre risultano davvero ispirati come messa in scena e coerenza i duelli in singolar tenzone.
In definitiva in Ghost of Tsushima è più appagante la via del samurai che quella del ninja.
Può essere che dopo poco tempo di gioco Ghost of Tsushima possa sembrare vuoto e inconsistente, fasullo ed estetizzante ma non lo è quando si accetta la sua ritmica e la sua arte. È un’opera che in superficie, se giocata distrattamente, magari ancora devastati dal peso emozionale e artistico di The Last of Us Parte II, può apparire persino mediocre nelle sue modalità di gioco.
Ghost of Tsushima è invece un’esperienza che rivela le sue eccellenti qualità vivendola con perseveranza, quiete e curiosità, rinunciando alla tirannia del tempo per smarrirsi lungo i suoi sentieri, cercando grilli canterini in vetusti cimiteri, aspettando sul ciglio di un crepaccio che si levi il sole, ascoltando le storie disperate o patetiche di “persone” meschine e nobili, seguendo il vento solo per arrivare al cospetto di un raro fiore, fissando riflessivi e sicuri l’occhio del nemico sapendo che quando infine deciderà di attaccarci saremo più letali e veloci di lui.