Federico Ercole per Dagospia
“A fantasy based on reality” si leggeva mentre scorrevano le prime immagini di Final Fantasy XIII Versus, ovvero quell’antico progetto di Tetsuya Nomura rivelatosi un’utopia ed estintosi nel tempo, trasformato infine in Final Fantasy XV che mantenne tuttavia quella definizione. Una storia fantastica ispirata dalla realtà, soprattutto perché c’erano le automobili cosi simili alle nostre, sembrava.
Ma il valore della quindicesima fantasia finale non risiede affatto nella sua dialettica critica con il presente e il pregio maggiore e per lo più incompreso sta invece nella sua forma illuminata, nella struttura così significativa: la libertà concessa da una spensierata e privilegiata giovinezza che si consuma nelle possibilità di un “open world” chiuso poi da una linearità spietata coincidente con l’accettazione della maturità, delle rinunce e delle responsabilità che crescere implica.
Final Fantasy XVI, appena uscito per Playstation 5, è invece davvero una fantasia finale ispirata dalla realtà, quella buia di adesso: le catastrofi di un pianeta che muore, la guerra e la sua abietta e ingannevole retorica, nuove e vecchie forme orripilanti di schiavitù e discriminazione, migrazioni necessarie ma contenute con la violenza, la diffusione della povertà invece della sua cura per alimentare il potere e la ricchezza esclusiva di oscene aristocrazie e commerci.
Nel medioevo favoloso e riconoscibile proprio perché così affine al presente di Final Fantasy XVI combattiamo come fuorilegge, ci opponiamo al sistema, mettiamo in atto una rivoluzione, tentiamo una liberazione e infrangiamo gli idoli per un nuovo inizio, quei cristalli magici che nei trascorsi episodi hanno sempre avuto un significato benefico ma ora sono vecchi, cattivi e cadenti, vanno rotti per ricominciare da capo. Final Fantasy XVI potrebbe essere Final Fantasy “uno”, perché rinnega il passato per riaffermare un valore diluitosi che non è solo ludico ma filosofico, artistico e politico.
EPICA VISIONARIA
Gli autori di Final Fantasy XVI hanno affermato di essersi ricordati della lezione di Game of Thrones durante la stesura della loro grandiosa e tragica storia, che tuttavia si può definire “martiniana” solo per alcuni elementi superficiali ma assimilati con stile, come la violenza cruda, la ricorrenza del turpiloquio, la rappresentazione (qui non troppo esplicita ma nuova per la “serie”) del sesso, qualche rara citazione. Ma quel lirismo incantato e quel pathos a tratti iperbolico c’erano già nei più ispirati e riusciti Final Fantasy.
Nell’armatura avita di Clive, nobile eroe sofferente di un passato traumatico e micidiale, rinnegato e tradito persino dalla terrificante madre e ridotto in schiavitù, cominciamo una lotta spietata, illuminata e disperata contro il potere mentre assorbiamo nel suo corpo dalla facoltà metamorfica innumerevoli forze mostruose ed elementali che scateniamo in combattimenti la cui forza visionaria sfocia quasi nell’astrazione, ricordandoci l’eleganza letale delle danze marziali di Bayonetta, i vettori policromatici e ipercinetici di Zone of Enders 2 e talvolta il titanismo sublime ed esasperato di Asura’s Wrath.
Non è richiesto particolare virtuosismo per vincere ma l’abilità del giocatore risiede soprattutto nel generare visioni, la lotta come motore di un’estetica che non esclude l’emozione derivante dalla narrazione, un trama che ci motiva oltremodo in battaglie che possono trascinarsi anche per decine di minuti, in uno straordinario delirio di immagini potentissime.
Così esploriamo e sostiamo in un’alternanza continua tra momenti dilatati, persino “noiosi” quanto necessari nella loro giornaliera banalità e crescendo epici devastanti, prolungati come quelli degli “adagio” delle ultime tre sinfonie di Anton Bruckner. La regia delle lunghe sequenze non interattive, presenti anche durante i suddetti lunghi momenti di transizione, è dimessa ed elementare per sottolinearne la lenta dimensione quotidiana, la noia e la necessità del lavoro, ma diviene virtuosa e magnifica quando il tono del racconto si alza verso imprevedibili climax di epica e tragedia.
Final Fantasy XVI è tutto fuorché un gioco difficile, ma questa accessibilità lo rende universale e non nega a chi cerca la sfida il piacere del rischio, della sorpresa e dell’esperimento.
POCHE OMBRE TRA TANTE LUCI
Sebbene la bellezza panoramica di Final Fantasy XVI sia solo scenografica, intangibile, il suo fascino è innegabile tanto che l’esplorazione talvolta è più necessaria per scoprire un vista inedita e sorprendente che oggetti o risorse davvero utili. Siamo all’antitesi di quel capolavoro assoluto che è Breath of the Wild, qui la natura è inerte, una pittura, ma d’altronde si tratta di esperienze diversissime. Peccato che l’arte degli scenari sia alterata e penalizzata da una pletora di scritte, segnali, numeri, statistiche che non si possono eliminare dal menù delle opzioni. Capita raramente che l’immagine sia pulita e quando succede è bellissimo.
Ci sono tante missioni secondarie e qualcuna è davvero poco gratificante o tediosa, ma come accennato sopra serve a restituire l’idea di un mondo che trascorre anche oltre l’epopea dell’eroe che da queste attività opzionali e dai loro racconti risulta arricchita e potenziata. Tra le missioni secondarie ce ne sono tuttavia alcune indimenticabili, da togliere il sonno per la loro durezza e crudeltà.
La colonna sonora di Soken trascorre per momenti d’ispirazione notevoli, soprattutto quando dialoga con le invenzioni musicali di Nobuo Uematsu e la varia, o quando la timbrica sinfonica e corale diventa quella intimista, cameristica e folk di pochi strumenti a corda o di una chitarra. Ma sembra che la partitura sia ridotta rispetto alle immagini e alle narrazioni che dovrebbe illustrare, con musiche talvolta riutilizzate in maniera identica in contesti diversi, perdendo così d’identità.
Il disegno dei personaggi, escluso quello dei protagonisti, di alcuni antagonisti e dei mostri è talvolta poco ispirato come se generato in maniera fredda e automatica. Non giova inoltre al loro carisma il doppiaggio in italiano e si consiglia di giocare in inglese (il doppiaggio originale è in questa lingua, non in giapponese) con l’eventuale ausilio dei sottotitoli, perché così la teatralità dei dialoghi è restituita e non penalizzata da una spesso ingiustificabile mancanza di aderenza ai personaggi e fiacchezza di recitazione.
Innalzandosi oltre questi rari ma evidenti difetti, Final Fantasy XVI è un oggetto artistico e drammatico di raro spessore, esaltato da una magniloquenza visiva travolgente che illustra le vicissitudini di personaggi indimenticabili nel bene, nel male e nelle tante sfumature tra questi estremi. Ci sono Final Fantasy dove gioco, arte e narrazione coincidono in maniera più alta ed esemplare, ma in questo magnifico squilibrio ci sono storie e visioni tra le più coinvolgenti, importanti e suggestive mai raccontate e viste in un’opera elettronica pensata per il grande pubblico. Malgrado le regole del gioco (di ruolo) siano infrante nella spettacolare frenesia dell’azione, la sedicesima fantasia finale è un Final Fantasy purissimo, senza dubbio il migliore e più rappresentativo di un’idea dai tempi del decimo, forse anche oltre.