Foto di Luciano Di Bacco per Dagospia
Danilo Taino per il “Corriere della Sera”
Dice che il secolo americano è finito. Forse è vero. Ma, se è vero, quando è finito?
Una buona data da prendere in considerazione potrebbe essere il 22 febbraio 1987: quando, all' Old New York Hospital, morì Andrew Warhola, 57 anni, conosciuto al mondo come Andy Warhol.
Certo, l' America è sempre lì, potente e creativa ancora oggi. E dopo quell' inverno 1987 ne ha fatte di cose. Però, sì: quella data è una delle migliori per segnare la fine dell' egemonia dell' impero più immaginifico e più esteso, almeno in senso culturale.
È una buona data perché Warhol è stato l' America: per gli americani e per il resto del mondo. L' Unione Sovietica e il comunismo sono crollati anche perché mai hanno e avrebbero potuto nutrire uno spirito del genere.
C' è l' americanità ovvia, subito evidente e domestica di Warhol. Le lattine di zuppa Campbell' s, Marilyn, Liz, i miti del cinema e della musica rock. Ci sono le copertine dei microsolco - per i più giovani: i vinili a 33 giri. C' è la riproduzione di massa delle opere, l' altra faccia del consumismo o della negazione dell' unicità, l' arte della serigrafia e della Polaroid che in qualche modo arriva a tutti, democratica e di massa. Accomodati allo stesso party ci sono gli artisti pop, gli scrittori, le black panther, i direttori d' orchestra e i Mad Men della pubblicità. E c' è, appunto, New York, quella degli Anni Sessanta e Settanta, magari in bancarotta ma centro del mondo, di un pianeta diviso in due ma con un campo mobile e l' altro fermo nel freddo marmo.
marisela federici dino trappetti
Poi, c' è l' americanità di Warhol che si stende sopra i continenti, uno dei momenti massimi del soft-power degli Stati Uniti, della possibilità dell' impero di perdere in Vietnam ma di vincere al cinema, nella musica, nella letteratura, nella scienza, sulla luna. E di inventare una pop art che è uno spartiacque tra il prima e il dopo. C' è la potenza che conquista il mondo con gli eserciti, che però poi perdono le guerre tra il popolo, c' è il sovrano dollaro, che però poi non varrà più come l' oro, ma c' è la cultura che rompe con la vecchia Europa e non tornerà più indietro.
marisela federici umberto croppi
Per questo, forse, possiamo dire che Warhol è stato il secolo americano e che tutto è finito quel 22 febbraio 1987. Sarebbe oggi riproducibile un Andy Warhol in America? New York non è più la sua e non è nemmeno il centro di un mondo, che ne ha molti e si moltiplicano. La Madison Avenue ha perso i pubblicitari, diventati una serie tv. Le innovazioni non nascono nella Big Apple, semmai nella Silicon Valley, fino a che dura. Le lattine Campbell' s già si sono smaterializzate e lo scaffale non è in un supermercato ma in una impalpabile Amazon.
Pure i miti di Hollywood, anzi di Netflix, sono illuminazioni digitali. Addirittura, il presidente, Donald Trump, è una serigrafia di Warhol, stessi colori e ubiquo. E, nel mondo, nessuno aspetta più un artista americano per segnare le nuove epoche: nelle gallerie espongono i giapponesi, i cinesi, gli indiani, i ragazzi del Sudafrica, perfino gli europei.
La chioma d' argento di Andy continua ad affascinare, le sue opere a dividere le opinioni, la sua apertura ha conquistato i continenti. Ma, ora, non hanno più bisogno di lui: forse, un po' meno anche dell' America. E non è una buona notizia.
Warhol ha dato al mondo dell' arte quello che doveva dare e nell' epoca che ha aperto sono poi entrati tutti, sia chi lo apprezza sia chi lo critica. E bello è il moltiplicarsi di centri in cui l' espressione artistica fiorisce, non più solo Manhattan. Quello che sembra mancare, ovunque, è lo spirito di Andy Warhol, lo spirito di quella New York che era un esperimento permanente. Perché erano i giorni della libertà: in molte piazze oggi vengono negati.
LA COMPLESSITÀ DI UN' ARTE CAMALEONTICA E MAI SAZIA IN UN PERCORSO DI 170 OPERE
Laura Martellini per il “Corriere della Sera”
Andy Warhol tutto intero. La musica, la moda, i disegni, le Polaroid. Una scansione che rende l' idea della complessità del protagonista di una rivoluzione visiva capillarmente raccontata nella mostra Andy Warhol, dal 3 ottobre a Roma, al Vittoriano. A novant' anni dalla nascita, l' esposizione di 170 opere è prodotta e organizzata da Arthemisia con Eugenio Falcioni & Art Motors srl, a cura di Matteo Bellenghi.
Così viene restituito Warhol ritrattista, nella sezione Polaroid e acetati. L' artista posa l' occhio curioso sui personaggi del rock, del cinema, della moda, Valentino, Armani (la mano sul mento, da stilista ad icona), Stallone, Schwarzenegger. Anticipatore degli odierni selfie, si autoraffigura en travesti accanto ad alcune drag queen (Ladies and Gentlemen) e, indossata l' immancabile parrucca argentata, si immortala, camaleonte in perenne trasformazione. La Polaroid come primo passo verso la serigrafia.
La sezione Musica indaga lo spirito libero di Warhol disegnatore di album musicali, attività che gli esplode fra le mani collaborando, nel 1967, con il gruppo di Lou Reed per il lancio di The Velvet Underground & Nico, noto come «disco banana» per lo sticker che, sollevato, scopre un simbolo fallico. E alla successiva amicizia con Mick Jagger. Una vera zip sulla copertina di Sticky Fingers dei Rolling Stones lascia intravedere gli slip del modello. Miguel Bosé per molti di quella generazione ha il volto reiterato da Warhol nell' album Milano-Madrid.
ernesto carbone clarissa domenicucci
La Moda - altra articolazione della mostra al Vittoriano - è Warhol. Una passione convogliata in mille rivoli. Fin dagli anni 50 l' artista collabora con i periodici Mademoiselle, Glamour, American girl, Harper' s Bazaar. Nel 1965 crea The souper dress, abito femminile su cui sono stampate le Campbell' s Soup Cans.
Degli anni Ottanta sono le t-shirt con i ritratti degli amici, nomi come Keith Haring, Joseph Beuys, Basquiat. Warhol entra nel jet set newyorkese. È più mondano che mai. Lo Studio 54 la sua seconda casa. Nel 1975 invitato dagli Agnelli arriva in Italia e «ferma» i volti di status symbol, anche grazie a lui catapultati nell' immaginario glamour, da Valentino, a Coveri, a Grace Jones. Vive anche il suo «periodo napoletano», nel 1985: la serie Vesuvius è un' esplosione di lapilli e colori.
Ma c' è anche Warhol disegnatore, ed è sorprendente il tocco realistico che si fa ispezione psicologica. Inizia tratteggiando sagome di scarpe (per la catena I. Miller e poi sull' edizione domenicale del New York Times) mentre sbarca il lunario, all' arrivo nella Grande Mela, anche come vetrinista. Si dedica ai gioielli e ad altri accessori di moda. È il passaggio nel mondo della cultura di massa e dei beni di consumo. Complice la folgorazione per i dipinti di Jasper Johns e Robert Rauschenberg, e l' influenza di «cantori» della quotidianità come Muriel Latow e Ivan Karp, lavora ai disegni di Campbell' s Soup, Ketchup Heinz, Coca-Cola.
Più noto, ma ugualmente sovversivo, Andy Warhol delle Icone. Liz Taylor, Jackie Kennedy, Mao, Marilyn, i Self Portrait: la mostra mette in luce il percorso di avvicinamento dell' artista alla rappresentazione seriale dei personaggi celebri. Volti stilizzati, privi di individualità: «Mentre guardi alla tv la pubblicità della Coca-Cola - sentenzia - sai che anche il presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla...». Un' omologazione che poco s' adatta al personaggio, spiega Matteo Bellenghi, il curatore: «Guai etichettarlo nella pop art o come quello delle Marilyn. Warhol è solo apparentemente semplice: ne trasmetteremo la complessità divertendo il pubblico e collegando le sezioni con contenuti extra, installazioni ed effetti scenografici adatti anche ai più piccoli».
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il marchese giuseppe ferrajoli e vincenzo merli
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